lunedì 27 aprile 2015

IL SILENZIO E' UN BALSAMO GENTILE




Abbiamo paura del silenzio. Appena entrati in casa, la prima cosa che facciamo è accendere la radio o la televisione. La nostra vita ha una colonna sonora continua che noi attiviamo, senza rendercene conto, in maniera automatica. La stessa cosa quando saliamo in macchina. E quando siamo in viaggio, molti di noi ascoltano la musica con gli auricolari. E se siamo in treno o in pullman  e magari
vorremmo riposare o guardare il paesaggio dal finestrino, siamo in qualche modo costretti a sentire il rimbombo o l’eco della musica dell’i pad del nostro giovane vicino di scompartimento. Nei negozi, nei pub, nei grandi magazzini, alla stazione, siamo immersi in un frastuono continuo di musica ad alto volume, a volte ossessiva e ripetitiva. In certe pizzerie è quasi impossibile scambiare due parole con i nostri amici. E spesso, ciliegina sulla torta, i luoghi sono talmente bui da non riuscire neanche a leggere il menù. Io personalmente,se quando entro in un negozio c’è della musica di quel tipo, me ne vado all'istante.Gli acquisti si dovrebbero fare con calma, in un ambiente rilassato e pacifico, non travolti  dai
decibel che a volte ci rimbombano nella cassa toracica o accecati da luci al neon invadenti che ci fanno subito entrare in uno stato strisciante di ansia. Inquinamento, anche luminoso. Perché? Io amo la musica, da giovane ho ballato tantissimo e ballo ancora. La musica è gioia, espressione di vitalità, passione. Ma quando siamo noi a decidere di ascoltarla.

Sia classica che rock, sinfonica, etnica, country, metal, dobbiamo sceglierla noi, nei luoghi e modi che decidiamo di volta in volta, assecondando il nostro stato d’animo e i nostri gusti. Io ad esempio adoro il reggae e, se vado a qualche concerto, ballo per tutto il tempo, fin quasi allo sfinimento. E mi commuovo se ascolto Debussy.   
Allora mi sorge una domanda: che cosa ci spaventa del silenzio? L’horror vacui? Lo stare in contatto con le nostre emozioni, le sensazioni del corpo, magari la nostra solitudine? Io ho la fortuna di abitare in una casa molto silenziosa, a parte qualche eccezione che poi vi dirò. E per me non c’è niente di più bello che mettermi davanti alla finestra e sentire i suoni che vengono dall’esterno: le rondini che impazzano nel cielo, il canto dei merli, l’abbaiare di un cane, le voci che salgono dalla piazza, e se mi metto bene in ascolto, il rumore del mare. E’ una forma di meditazione: stare con quello che c’è, suoni, odori, sensazioni, pensieri, ed essere consapevoli di quello che accade dentro e fuori di noi. Attenzione, presenza, cura, ascolto amorevole. Non perderci quello che sta accadendo, magari distratti dalle voci urlanti di qualche talk show che neanche guardiamo o da qualche radio commerciale che trasmette di continuo pubblicità. Non voglio generalizzare. Spesso alla radio trasmettono dell’ottima musica e alla televisione non vediamo solo trash, ma quello che vorrei sottolineare è la QUANTITA’, a volte eccessiva, di questo sottofondo che ci imponiamo o ci viene imposto. Scegliamo con attenzione, ascoltandoci nei nostri bisogni. E così potremo renderci conto che lavare i piatti, con calma, in una serata silenziosa, può essere bello e rilassante, dare l’acqua alle piante, con gentilezza e amore, rallentando i gesti dopo una giornata di lavoro, ci fa sentire in contatto con la natura, e starcene seduti a leggere un buon libro, piuttosto che rivedere per la seconda volta un brutto film d’azione, pacifica e rigenera. Il silenzio è un balsamo gentile, se solo ci ricordiamo di usarlo. E se di domenica in città ci sono caos e confusione, possiamo andarcene a camminare in collina (come ho fatto ieri con alcune amiche) fino al tramonto, ed inebriarci del profumo delle ginestre e del timo fiorito rendendoci conto di quanto siamo fortunati a vivere in un posto così bello. E quando, durante il week end, dal pub che ci hanno aperto sotto casa, saliranno fino alle due di

 
notte musica a tutto volume, urla e schiamazzi ( la famosa movida che ha distrutto le notti degli abitanti dei centri storici), dopo aver inutilmente segnalato la cosa a chi di dovere, la meditazione ci potrà aiutare a non soffrire ancora di più indugiando in pensieri del tipo "Io la mattina mi alzo per andare a lavorare e questi non hanno niente da fare ..." e così via. Con l'aiuto eccezionale di un buon paio di tappi di cera.

lunedì 20 aprile 2015

ABBIAMO BISOGNO DI MAESTRI



Abbiamo bisogno di Maestri. Lungo il corso della vita, se siamo fortunati e attenti, potremo incontrarne tanti. Ma non hanno mai lo stesso aspetto e spesso possono manifestarsi nelle forme più strane. A volte sono persone, altre volte possono essere libri o oggetti, altre volte sono animali. Accade quotidianamente che, se ci mettiamo in ascolto, la natura, in tutte le sue meravigliose manifestazioni, possa diventare la nostra Maestra più vigile e presente.
L’importante è comunque sapere che dobbiamo imparare e che questo compito non può certo esaurirsi con la nostra formazione scolastica. Si impara e si studia per tutta la vita. E chi non lo fa è costretto a vivere nell’abitudine e nella calma piatta. Sarà la vita stessa a volte a scuotere e a insegnare anche a quelle persone che credono di non aver bisogno di imparare. E la lezione, arrivata all’improvviso, sembrerà severa, addirittura crudele.

Alle elementari, a Cagliari, avevo una maestra che adoravo. Ma io non ero la sua preferita. Lei preferiva un maschietto un po’ turbolento, rosso di capelli, dalle ginocchia eternamente sbucciate. E io per farmi accettare cercavo di essere brava e di fare i compiti nel migliore dei modi. E ricordo con gioia i suoi “bravissima” scritti in rosso sul mio quaderno, che mi facevano battere il cuore. E’ stato così che ho imparato la bellezza delle parole, l’armonia della punteggiatura, la gioia di scrivere, con la mia bella penna stilografica a cartucce che poi riponevo con cura nell’astuccio. Ecco, dalla mia maestra, che si chiamava Michela, ed era giovane e bella e profumava di fiori, ho imparato la cura e l’amore per la scrittura.

I libri sono stati i miei maestri nascosti. A 7 anni leggevo i libri di mia madre. Avevano una copertina verde, e facevano parte di una collezione di autori di tutto il mondo: Steinbeck, Hemingway, Pearl Buck, Bernanos, Algren. Mi immergevo in quelle letture, capendo naturalmente solo una parte della trama, che a volte era molto complessa e forse non adatta a una bambina di quell’età. Ma la bellezza delle parole, la loro luminosità e precisione, il descrivere luoghi e persone facendomeli quasi vedere...quella per me era magia. I libri mi hanno insegnato l’amore per le storie e dopo quelli verdi ne sono venuti molti altri ancora. Adesso fra di loro i miei maestri preferiti sono i libri di poesia

E poi c’è stato il cinema. I miei genitori mi hanno portato molto presto al cinema e da subito sono rimasta incantata dalle meraviglie del grande schermo. Potevo piangere e ridere, immedesimarmi nei personaggi, divertirmi o commuovermi, raramente annoiarmi, cosa che mi accadeva guardando film di guerra. Quelle che proprio detestavo erano le storie ambientate sui sommergibili.

Il cinema mi ha insegnato che il mondo è grande e che a volte niente è come sembra.

E siccome il mondo è grande, allora bisogna viaggiare. Possibilmente in modo avventuroso. Quando avevo vent’anni quel modo era l’autostop. Con Lena, la mia migliore amica, abbiamo viaggiato per tutto il sud e le isole, incontrando persone e luoghi meravigliosi. Libertà, un misto di sana incoscienza e allegria, e tanta fiducia nella gente,
nelle situazioni, nella vita: questi erano gli ingredienti dei nostri viaggi. Niente di brutto ci sarebbe potuto accadere. E così è stato. Dall’ autostop ho imparato cosa sono la gentilezza e l’ospitalità e che dappertutto c’è qualcuno disposto ad aiutarti. E i viaggi successivi hanno continuato ad avere come matrice comune il gusto della scoperta e dell’avventura.

E poi le persone. Mio padre mi ha insegnato l’allegria e la fiducia. Mia madre il senso di responsabilità e la sincerità. I miei nonni la tenerezza e l'accudimento. I miei amici, sono troppi per elencarli tutti, la fratellanza. Mia figlia l’amore incondizionato. Quello che cresce di giorno in giorno.  A volte, un estraneo, incrociato per pochi attimi, può darci una lezione di vita. Un signore gentile a Carbonia, aiutandomi a cercare la casa di un mio amico d’infanzia, mi ha citato una frase del filosofo sardo Remo Bodei che mi ha fatto capire che spesso andare a cercare il passato è un modo per non stare pienamente nel presente. Ed era quello che stavo facendo. E la mia amata vicina di casa Wanda mi ha dato delle grandi lezioni sulla riservatezza, la gentilezza e la generosità. Il mio cane Ugo e il mio gatto Pallino, che non ci sono più, mi hanno insegnato l’amore puro, la cura (che ci scambiavamo reciprocamente), la tenerezza, la semplicità, la gratitudine. Lucy la mia gatta, trovata ai piedi di un cassonetto, mi sta accompagnando negli anni della maturità avanzata, insegnandomi la bellezza della quiete, del silenzio, del semplice stare insieme. E poi ci sono i miei Maestri spirituali e di scrittura, che a volte coincidono. E gli alberi, la terra, il mare, le montagne. La Natura in tutte le sue forme. Di questo avrò modo e tempo di parlare.









martedì 14 aprile 2015

MI CASA ES TU CASA





Avrei voluto una famiglia numerosa

Mia madre era figlia unica, io sono figlia unica e la vita mi ha regalato un'unica figlia

Per parte di padre ho parecchi cugini, molti dei quali hanno ereditato come me il seme dell’irrequietezza e del viaggio. Filo conduttore e matrice comune, anche senza un nesso apparente, è l’America Latina. Due miei cugini vivono in Venezuela e lì si sono fatti una famiglia. Il mio cugino romano vive in Brasile con sua moglie e la sua bambina. E, sempre in Brasile, vive e si è sposato il figlio del mio cugino torinese. Un’altro cugino ha avuto due mogli, una cubana e una cilena. Io sono stata sposata con un peruviano e mia figlia è nata sulle Ande. Mia madre, dopo esser rimasta vedova, ha avuto una bella storia d’amore con un etruscologo del Costarica. Insomma l’America Latina è parte integrante della nostra storia di famiglia.
Non ricordo da bambina cene e pranzi di famiglia tutti intorno a un tavolo, a parte un Natale di quando avevo dieci anni, che mi sembra un sogno. Quindi provavo curiosità e ammirazione per le famiglie numerose e rumorose.
Ma ho trovato il modo di compensare, sviluppando molto presto la capacità di fare amicizia con tutti. Alle elementari arrivavo per prima in classe, tanta era la gioia di trovarmi con i miei compagni che rappresentavano i fratelli e le sorelle che non avevo avuto. E anche al Liceo, gli anni più belli, ho sperimentato la gioia dell’amicizia, della condivisione e della fratellanza. Ho amici dappertutto e dovunque vada ho qualcuno che mi ospita. D’altronde anch’io ospito molto, mi piace aprire la mia casa, condividere la bellezza della vista sulle isole e sui tramonti, preparare cene semplici e gustose. Faccio parte da anni di un’associazione, il SERVAS che ha come scopo principale l'amicizia e lo scambio di ospitalità fra i suoi iscritti e che mi ha permesso di fare incontri molto molto interessanti. Ricordo in particolare una neuro-psichiatra infantile olandese, esperta nell’elaborazione del lutto. L’ho ospitata tre volte ed era un piacere sentirla parlare nel suo buffo e volenteroso italiano, di arte di cinema e di amori, fra un bicchiere di moscato e una ciambellina al vino, Mi ha invitata ad  andarla a trovare a Rotterdam e prima o poi ci andrò, so che lei mi aspetterà a braccia aperte. E poi ricordo un bolognese, promotore culturale, suonatore di bongos. Abbiamo fatto una meravigliosa passeggiata lungo il mare al tramonto, chiacchierando come se ci conoscessimo da una vita e scoprendo di avere in comune un amico napoletano ( mi vengono in mente “6 gradi di separazione”!). E poi un ottantenne finlandese che sembrava Babbo Natale, con un enorme zaino rosso sulle spalle magre: nonostante l’età se ne andava in giro per il mondo, con il suo sguardo azzurro e puro da ragazzo.
In Costarica, tanti anni fa, sono stata ospitata per 7 mesi da una donna che per me rappresenta l’emblema stesso dell’accoglienza e della generosità. Ci aveva presentati un amico comune e lei subito ci aveva  accolti dicendoci: “Mi casa es tu casa”.  Si chiamava Dona Carmen, era una professoressa vedova che aveva adottato due figli di una sorella e una figlia di una cugina morta in un incidente. E cani, galline e una pappagalla di nome Lorita. E noi stranieri in viaggio, con l’arte nel cuore. 
Sette mesi in questa grande famiglia sorridente, scambiandoci a turno regali culinari, in una villetta con il patio fitto di piante tropicali. Quando c'era un improvviso acquazzone Lorita cantava una sua canzone stravagante a squarciagola stropicciandosi le piume colorate, felice di quel regalo del cielo. Ancora me la ricordo quella canzone...

Sette mesi di pura amicizia e armonia, in cui mi sono sentita accolta, al sicuro.  Mi sono sentita a casa.

Su quella bellissima esperienza ho scritto tempo fa queste due poesie:





Nell’Arca

eravamo in tanti

Carmen la matriarca

e i suoi figli adottati

una nipote orfana

un pappagallo

le galline

tre cani

cucarachas svelte nella notte

umida di tropico

e noi due viaggiatori

trasognati

pulizia incerta

polvere dappertutto

il bagno era giallo canarino

non funzionava lo sciacquone

quando pioveva

in gocciole immense

tutti ridevamo di allegria

la pappagalla Lorita

in giardino

a cantare la sua canzone

anche noi cantavamo

Dona Carmen i suoi inni sacri

io ninne nanne  anticipate

per abituarmi all’idea



eravamo una famiglia



mai

neppure un momento

mi sono sentita straniera

lontano

anni luce

era il dolore.





*******************





Robusta pena

separarsi dalla casa

l’ultimo saluto

a tutti

dietro la riga gialla

lato partenze

gratitudine tanta

da gonfiare gli occhi

in un pianto di ore



a Panama

fra un volo e un altro

vedevo le loro facce

una a una

le ho ricordate

sorelle e fratelli

una madre

animali buffi

un pappagallo pettegolo

imitatore di starnuti

gli stormi al tramonto

i pomeriggi d’amore

il binario morto

che portava all’Università

i prati



come in un film

la parola fine.






























mercoledì 8 aprile 2015

IL VIOLINISTA E LA MONACA ZEN (ci sono luoghi e incontri che chiedono di essere raccontati)



C’era una volta un Violinista.

Era minuto, aveva gli occhi scuri e i capelli riccioluti raccolti in una coda. Rassomigliava vagamente a Mozart e sembrava senza età. Ma, a guardarlo bene, si poteva intuire, dalle striature bianche fra i capelli e dagli impercettibili solchi ai lati della bocca, che non era più giovanissimo, anche se lo sguardo puro e profondo e il sorriso erano quelli di un ragazzo. Ma si intuiva anche, attraverso qualcosa che emanava dalla sua figura, dai suoi gesti, dal tono della voce, che la sua era un’anima antica, che molto aveva visto e conosciuto, vita dopo vita.

Il Violinista era stanco. Per anni aveva viaggiato in continenti e isole lontane e ora aveva bisogno di un riparo per il corpo, la mente e il cuore. Decise di partire e andò ai piedi di una montagna, in un piccolo eremo abitato da persone calme e gentili. Il cibo era semplice e saporito, le stanze erano arredate con mobili di legno sobri ed essenziali. All’esterno pendii verdi, alberi da frutto e, in lontananza, il Ghiacciaio a vigilare. Era un luogo di pace dove potersi raccogliere e fare spazio dentro di sé. Il Violinista ci si trovava bene, finalmente lontano dai tumulti e dalla confusione della città. Nell’eremo arrivarono tre Monache Zen. Erano gioiose e sorridenti e, al loro cospetto, tutti si sentivano sollevati e sereni. La più anziana aveva il dono della Pazienza e della Saggezza, quella di mezzo il dono della Gentilezza e della Commozione, la più piccola, che si chiamava Lien, il dono della Grazia e della Bellezza. Al mattino, dopo il Canto e la Meditazione, sorella Lien guidava dei semplici esercizi di risveglio del corpo. Così piccola di statura poteva essere scambiata per una bambina di dieci anni, ma appena si muoveva, piegandosi avanti e indietro, flessuosa come un giunco, od oscillando sui piccoli piedi a destra e sinistra, in una specie di danza che ritmava con suoni dolci e decisi nello stesso tempo, aveva la sensualità di una donna esperta nei gesti d’amore. Eppure era vestita di una semplice tunica marrone, nessun ornamento e la testa rasata, ma le sue movenze, il suo sorriso, la sua leggerezza, colpirono profondamente il Violinista. Ma era un’attrazione diversa da quella che di solito provava per le altre donne. Era qualcosa che andava al di là delle parole e dei sensi, un incontro con la Bellezza allo stato puro, (distillata in quella piccola Monaca in maniera perfetta) in una dimensione sublime e rarefatta, angelica e umana nello stesso tempo. Il Violinista propose alla Monaca anziana di accompagnare al violino Lien nel canto del mattino. 
La Monaca si rivolse alle sue consorelle con sguardo interrogativo: la mediana si limitò ad annuire, Lien si schermì ridendo e facendo brillare di curiosità i piccoli occhi a mandorla. Ma accettò, arrossendo lievemente. E il Violinista suonò, mentre Lien cantava, un canto dolce che strappava l’anima ed evocava il verde tenero delle risaie e dei campi di tè. La Monaca anziana si accovacciò fra la Musica e il Canto. Doveva vigilare che non ci fosse troppa vicinanza fra i due. E il Violinista seppe mantenere la distanza. Ma la Musica e il Canto si unirono nell’aria e salirono su su in alto, fino a toccare l’azzurro più puro e incontaminato e diventare una cosa sola.

domenica 5 aprile 2015

NELLE CASE DOVE CI SONO BAMBINI

Nelle case dove ci sono bambini non c’è mai ordine. C’è un disordine allegro, vitale, fatto di oggetti colorati, che occupano tutti gli spazi, ceste, cassetti, mensole, tappeti… I salotti diventano ludoteche e parchi giochi. Tricicli e macchinine ci fanno inciampare, trottole abbandonate attentano ai femori delle nonne, disegni con principesse dai cappelli a punta e alberi dalle grosse radici e dalle rosse mele, sono appiccicati dappertutto: sul frigorifero, sugli specchi, sulle pareti, sulle ante degli armadi.

E spesso su qualche muro ci sono le linee colorate che indicano la crescita mensile dei nostri piccoli. Le case dove ci sono bambini sono allegre e hanno un buon odore: di banana e mandarino, di colla, di caramella, di shampoo antilacrime, di talco, di biscotto o di crostata.

Le madri dei bambini piccoli sono spesso spettinate e hanno piccole macchie di farina sulle gonne o sui jeans. A volte si dimenticano di truccarsi o forse non ne hanno il tempo e può capitare che abbiano le occhiaie. I divani sono pieni di cuscini e di gormiti, dinosauri o barbie spettinate e spesso il pomeriggio la televisione è accesa, anche se nessuno la guarda. Nei bagni ci sono pulcini di gomma e pesciolini e sempre nella vasca il tappetino antisdrucciolo e davanti al lavandino un panchetto o una seggiolina. Nelle cucine, grossi pacchi di merendine, soprattutto quelle con le figurine e ovetti di cioccolata con le sorprese. Sui vetri delle finestre ci sono degli adesivi e quando c’è il vapore emergono strani ghirigori e firme svolazzanti. Le scarpe dei bambini sono dappertutto: scarponcini e ballerine, galosce e stivali foderati di pelliccia, scarpe da tennis dall’odore imbarazzante e infradito con le stelline. Non c’è verso di tenerle in ordine, sempre fanno capolino, a volte senza lacci, e sembrano dirci che bisogna muoversi, bisogna uscire…

Le case dove ci sono i bambini sono il dono più grande. Ce ne rendiamo conto quando i nostri figli crescono e si rintanano nelle loro stanze, quando non rientrano più a cena e quando mettono tutto negli scatoloni, un po’ alla volta, così fa meno male, e si trasferiscono nella loro prima casa di studenti. A volte ritornano, con grosse valige e gli oggetti acquistati nel frattempo, ma non ci illudiamo, stanno per andarsene di nuovo, è giusto così, è la vita, e per un po’ terremo la loro stanza chiusa, la arieggeremo ogni tanto e la prepareremo per quando vengono a trovarci per le feste. Ogni tanto se ne porteranno via un pezzo fino a che non rimarrà che una stanza triste, senza senso, con i mobili spaiati. E una mattina decideremo che quel meraviglioso affaccio sulle rovine romane e sul mare merita di essere goduto da qualcuno e che sì, non sarebbe male aprire un b&b e chiamarlo “camera con vista”.

venerdì 3 aprile 2015

"NCAPACE": MEMORIA E POESIA



Sono andata a vedere il film NCAPACE di Eleonora Danco per la seconda volta. Per godermelo e assaporarmelo in silenzio. Alla fine ero ancora più commossa ed emozionata della prima volta. E per molti motivi.

Il film di Eleonora è un film bello e poetico. Dalla prima alla ultima immagine. Non voglio addentrarmi negli aspetti tecnici e stilistici, a questo hanno già pensato, e compete loro, i critici cinematografici. Voglio solo condividere con voi le emozioni che ho provato.

Una delle ultime frasi che Anima in Pena- Eleonora pronuncia è: “Ho tutta questa memoria negli occhi che mi salva” E’ qui secondo me la chiave di lettura di tutto il film. Salvarsi, attraverso la memoria. Anche se è un percorso doloroso, straziante. Ma i ricordi sono lì, ti strattonano, incalzano, non puoi non ascoltarli. Bisogna scendere negli abissi. Ed Eleonora,  coraggiosamente, lo fa. La tuta che fa indossare e indossa in alcune scene è probabilmente una tuta da astronauta, ma mi piace pensare che possa essere anche una tuta da palombaro, per scandagliare le acque profonde della memoria, delle cose non dette, delle risposte non date. E lei chiede con la sua bella voce da ragazza, gentile ma autorevole, chiede, e non si può non risponderle, con espressione di imbarazzo, schermendosi con una risata o facendo finta  di non sentire, magari una domanda sulla morte. Che? Chiede Mafalda, la meravigliosa Mafalda, che a tutte le altre domande ha saputo rispondere con arguzia, saggezza e voce squillante. Che? E vengono fuori storie, per ognuna si potrebbe girare un film, tante storie, che a volte fanno accapponare la pelle, oppure semplicemente ci inteneriscono e ci fanno sorridere. Come può esistere l’anima, se si pensa ai morti nei sommergibili, da dove può essere uscita l’anima laggiù in basso, no, l’anima non esiste... E sempre Mafalda: se esiste la mamma esiste Dio, si dice sempre Oddio mamma... Oppure la giovane buffa e tenera Marianna che parla delle sue giornate, dei suoi libri non letti, dell’amore. O lo splendido Giacomo che mima il suo primo bacio. E che dire del ballo della minuscola badante? Esilarante, un’esplosione di energia pura, contagiosa. E poi il padre di Eleonora, che fa questo grande dono alla figlia, di esporsi, di parlare, anche se schivo, anche se a certe domande non se la sente di rispondere e i suoi occhi diventano sempre più stretti e si inumidiscono di pianto quando parla della moglie che non c’è più. Ma Eleonora, incalza, con amorevolezza, ma incalza. Perché papà? Dimmi papà... E in quei momenti ci costringe a confrontarci, noi tutti, con l’ambivalenza dei sentimenti e con la paura della vecchiaia e della morte, quella nostra e quella dei nostri genitori. Noi li amiamo i nostri genitori, ma non sopportiamo, proprio non sopportiamo che diventino vecchi, fragili, insicuri. E allora proviamo rabbia, ci dà fastidio quello che dicono, come mangiano, i loro gesti rallentati. Ma è solo paura, solo dolore. Ed Eleonora ce lo mostra con coraggio. Perché ci vuole coraggio a superare certi confini, a esporsi, a parlare di domeniche tristi, di solitudine, di case vuote, di mamme che non ci sono più. Ma ci sono i giovani oltre ai vecchi nel film, nessuna età di mezzo, a parte quella di Eleonora. E i giovani che Eleonora intervista spesso non hanno cultura, sembrano persi, ma sono belli lo stesso, perché lei riesce a catturare la loro umanità, la loro anima, che nonostante tutto è luminosa e vibrante. C’è molto amore in questo film e molto rispetto. E c’è Saudade, questa parola portoghese intraducibile, che vuol dire tante cose: malinconia, nostalgia, rimpianto, tenerezza. Terracina, la città di Eleonora, la mia città, appare bellissima, luminosa e spaziosa. Ed Eleonora ce la porge in alcune immagini surreali, a volte metafisiche (la piazza bianca, gli archi del tempio, le statue del museo). E lei appare e scompare, chiara, eterea, oppure con una tunica scura che svolazza e ci offre il suo corpo agile e vitale, per un attimo nudo, o ricoperto di Gentilini in una vasca da bagno, sdraiato in un letto per strada, che rotola sugli scalini della cattedrale.... La fotografia meriterebbe un discorso a sé. Alcune immagini dei visi dei ragazzi e delle ragazze ricordano le foto di Henri Cartier Bresson. E all’inizio del film, quell’ombrellone sfilacciato, quella madre di spalle, Eleonora che vuole fare il bagno...la spiaggia deserta... Pura poesia.

Mi fermo qui. Eleonora grazie, di tutto. Per la tua gentilezza, la tua forza, la tua generosità. Aspettiamo con gioia il tuo prossimo film. Non vediamo l’ora.


mercoledì 1 aprile 2015

LA SPESA AI TEMPI DELLA CRISI. Divagazioni tragicomiche




Prima, nel periodo delle vacche grasse, che poi tanto grasse non erano, anzi erano snelle, ma almeno non gli si contavano le costole, riuscivo a fare la spesa in meno di dieci minuti. A volte mi precipitavo al supermercato  a un soffio dalla chiusura e andavo orgogliosa del fatto che in cinque minuti, al massimo sette, riuscivo a fare i miei acquisti (tenendo conto dei due minuti successivi all’ultimo annuncio fatto da qualche cassiera che in quella manciata di secondi osava tirare fuori tutta la sua seduzione, simulando di essere una supersexy ragazza di una hot line).

Adesso tutto è cambiato. Andare a fare la spesa richiede tempo, attenzione e organizzazione. Non è una cosa da fare come se niente fosse. Non più come prima. Dunque annullare gli appuntamenti e gli impegni di qualunque tipo per almeno un paio d’ore. Ma prima fare una ricognizione ACCURATA di quello che manca. Non ci si può certo limitare a segnare su un foglietto che mancano il pane e il latte, no! E poi disegnare una mappa del supermercato, per evitare la trappola dei prodotti da comprare all’ultimo minuto, magari interrompendo la fila proprio quando stava per toccare a noi. Quindi mappa con i vari reparti e, su ogni reparto, scrivere in rosso i prodotti che dobbiamo acquistare. Naturalmente prima di iniziare il giro dei reparti dobbiamo leggere:

A: il giornalino con le offerte;

B: l’elenco dei prodotti che danno diritto a più punti regalo. Per inciso, adesso non viene più in mente a nessuno di accantonare i punti per prendere i regali, che poi regali non sono, perché vengono valutati a un prezzo altissimo e magari per un bicchiere ti tocca dare, oltre ai punti, anche tre euro. Da quando c’è LEI, la CRISI, se siamo fortunati e ci è capitata la cassiera più simpatica, prima di pagare le sussurriamo sotto voce con nonchalance “scaliamo i punti?” come fosse una parola d’ordine e lei, sorridente e complice ci comunica che abbiamo scalato BEN 1 euro e 50!

C: i prezzi dei prodotti in promozione esposti su un bancone all’ingresso, appesi naturalmente molto molto in alto, tanto da costringerci, sempre con nonchalance, a salire su una cassetta della frutta che non è proprio il massimo della stabilità, rischiando come minimo la rottura del femore o del malleolo,  a seconda dell’età.

Si parte. Offerte visionate. Lotta interiore per rispettare la lista che mi sono fatta: non mi servono tre taniche di  candeggina da 5 litri, anche se me ne regalano una. Non mi servono. E neanche una confezione da dieci chili di pasta, la più costosa, che mi viene offerta con il 20 per cento di sconto. Mi costa meno quella con la marca del supermercato. Sono forte. Ce l’ho fatta. Sono un’acquirente consapevole. La meditazione zen mi sta insegnando qualcosa. Passo oltre. La tentazione davanti alle insalate in busta, già lavate, è forte. Rucola, insalata gioiosa, radicchio, mesticanza. La bustona di cellophane gonfia di spinaci, che si può ADDIRITTURA mettere così com’è direttamente nel microonde, fa vacillare la mia sicurezza.  E vogliamo parlare poi delle zuppe della nonna in barattolo? In un nanosecondo si scaldano e si mettono nel piatto. No. Mi rifiuto di pensare a un’eventualità del genere. L’insalata la compro al reparto biologico, di tre tipi diversi, la laverò 5 o 6 volte nella bacinella e poi la centrifugherò con quel meraviglioso arnese rosso rotondo che mi hanno regalato. Le zuppe pronte no. Mi rifiuto. Mettere in ammollo la notte prima ceci o fagioli, tagliare le verdure dopo averle lavate, fare un leggero soffritto e far cuocere almeno 40 minuti. Poi per renderle cremose, frullarle con il minipimer. Un gioco da ragazzi. O no? La frutta: ci sono sei o sette tipi di mele, le banane che vengono dalle coltivazioni dell’Honduras e quelle biologiche, ma più acciaccate, assolutamente vietate papaie e mango, chissà in quanti container hanno viaggiato e sopra quanti aerei. No. Frutta locale. Quindi leggere la provenienza. Cambio degli occhiali. Naturalmente non li trovo, li ho dimenticati in ufficio. Mi avvicino con il naso e la faccia appiccicati all’etichetta. Mi accorgo di non essere sola, accanto me c’è un gruppo di miopi dall’aria stralunata e lo sguardo perso, hanno la mia stessa postura: schiena curva, occhiali da vista in testa, occhi strizzati a cercare di leggere con cura. Ci scambiamo dei sorrisi di compassione e andiamo oltre. 
La scelta delle uova è veramente ardua.
Biologiche, da allevamenti a terra, extra fresche, giganti, di categoria 1, 2, 3. Ci vorrebbe una pausa caffé per riposare dopo la prima ora di acquisti, ma bisogna andare avanti. Opto per le uova biologiche e striminzite, appena un po’ più costose, ma almeno non mi verrà la Salmonella e non avrò contribuito alla follia di centinaia di galline stipate in locali angusti, una sopra l’altra, e nutrite a furia di mangimi chimici. Se fossi veramente coerente diventerei vegana. ma mi ci sto preparando. I tre piani di scale  (ma non scale normali, scalini belli alti del centro storico) carica di buste sono la fase finale di questa avventura. la ciliegina sulla torta. Sto pregustando il divano... La mia gatta mi accoglie facendo le fusa. L'accarezzo... e mi ricordo di aver lasciato la lettiera giù in macchina, mi tocca riscendere.