giovedì 28 maggio 2015

ETTY HILLESUM E LA GIOIA




Se dovessi scegliere di portare un solo libro con me su un’isola deserta, uno soltanto, non avrei dubbi: porterei con me il Diario di Etty Hillesum.
Leggerlo è stata per me una rivelazione e una sferzata di energia creativa e di amore per la vita. Etty ti entra nel cuore e succede a tutti quelli che l’hanno conosciuta, di non poter fare a meno di chiamarla così, solo per nome, come fosse un’amica, una sorella. E le sue parole e la sua voce, limpida, cristallina, ti scuotono, dolcemente, ma ti scuotono e ti rendi conto che riuscire a guardare la vita come faceva lei, con infinito amore, accettazione e gratitudine, è un dono che ci possiamo concedere. Riuscire a godere di ogni attimo, anche in mezzo alla tempesta, riuscire a scegliere di guardare la bellezza in mezzo all’odio e alla devastazione, riuscire a non odiare chi ci annienta, riuscire a portare conforto con la nostra sola presenza, a “restare umani” a prescindere dall’orrore che ci circonda, riuscire ad amare incondizionatamente, a perdonare e perdonarsi, questa è la meravigliosa lezione di Etty. Che ci insegna anche, attraverso le sue parole, a non avere paura del cambiamento, dell'impermanenza: oggi sono allegra, fra mezz’ora sarò triste, domani forse sarò annoiata, ma non perderò mai, comunque, la capacità di accettarmi e di volermi bene così come sono e di fare la stessa cosa con gli altri. Una meravigliosa tenerezza che può illuminare tutto quello che facciamo. Vorrei condividere con voi solo alcuni brani del suo diario e invitarvi a leggerlo e rileggerlo. Grazie Etty, amica mia.



“Stamattina una profonda tranquillità. Proprio come una tempesta che si è calmata. Mi accorgo che questo stato d’animo si ripete ogni volta: dopo giorni di vita interiore terribilmente intensa, ricerca di chiarezza, doglie patite per sentimenti e pensieri che non sono affatto pronti per nascere, enormi pretese da parte mia, e la ricerca di una piccola forma propria che diventa di un’importanza capitale, ecc. ecc.- ecco che poi tutto questo affanno improvvisamente mi cade di dosso; il mio cervello è piacevolmente stanco, c’è bonaccia di nuovo, sento quasi una sorta di dolcezza anche verso me stessa e su di me cala un velo attraverso cui la vita filtra più mite, e spesso più ridente. Sento allora di essere tutt’uno con la vita..... ( Diario, pag 85).



“Fa’ ciò che la tua mano per caso si trova a fare e non pensare al poi. Quindi adesso si fa un letto, si portano le tazze in cucina e poi si vedrà. Tide riceve i girasoli di oggi, la mia ragazzina deve imparare un po’ di pronuncia russa, e quello schizoide che supera le mie capacità di comprensione, deve essere studiato a fondo. Fa’ ciò che la tua mano e il tuo spirito si trovano a fare, tuffati in ogni ora e non metterti subito a ruminare coi tuoi pensieri, le tue parole e le tue preoccupazioni sulle ore successive. Devi riprendere in mano la tua educazione.” ( Diario, pag. 67).



“La sorgente di ogni cosa ha da essere la vita stessa, mai un’altra persona. Molti invece, soprattutto  donne, attingono le proprie forze da altri.: è l’uomo la loro sorgente, non la vita. Mi sembra un atteggiamento distorto e innaturale.” (Diario, pag 50)



Etty Hillesum è morta in un campo di concentramento nel 1943. Avrebbe potuto evitare la deportazione ma ha scelto di partire e così ci ha lasciato scritto: “Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite.” Aveva 29 anni e il suo sogno più grande era diventare una scrittrice.

lunedì 25 maggio 2015

LE 6 SORELLE. Una storia corta corta





C’era una volta una casa in collina abitata da 6 sorelle. La più grande si chiamava Allegria, la seconda Distrazione, la terza Pigrizia, la quarta Paura, la quinta Impazienza e la più piccola Costanza. I tre fratelli maschi, Entusiasmo, Amore e Perdono, erano da tempo andati a vivere al Nord, e di loro si sentiva molto la mancanza. Al risveglio Allegria spalancava le finestre e iniziava a cantare. Poi di corsa andava a svegliare le sorelle, tirando via le lenzuola dal letto. “Su dormiglione, alzatevi, è una bellissima giornata, e dobbiamo fare un sacco di cose prima che cali il sole!” E se ne andava in cucina a preparare la colazione per tutte.
Pigrizia si alzava sbuffando. “Uffa - diceva- un’altra giornata piena di cose da fare, uffa!” E trascinando i piedi, spettinata, si affacciava in cucina. “Non è ancora pronto?” le chiedeva Impazienza con la faccia corrucciata, sbocconcellando una mela. Costanza nel frattempo si era già rifatta il letto, si era lavata e pettinata e persino profumata  con l’acqua di colonia. Paura se ne stava alla finestra scrutando il cielo. In lontananza aveva visto una nuvoletta scura e questa cosa la spaventava tantissimo: sicuramente sarebbe arrivato il temporale e lei aveva il terrore dei tuoni e dei fulmini, temeva che avrebbero abbattuto la quercia nel cortile, senza parlare poi del vento che sicuramente sarebbe arrivato e avrebbe scoperchiato il tetto della casa... Distrazione reclamava intanto ad alta voce: “Dove sono i miei vestiti? Non li trovo! E i miei occhiali? Dove li ho messi? Costanza mi dai una mano a cercarli?” E Costanza, con un sorriso e la grazia di chi non si perde mai d’animo, le diceva: “Ecco gli occhiali, erano sul comò, e i vestiti, guarda, sono sulla sedia dove li avevi lasciati ieri notte”. E nella sua voce non c’era la minima ombra di biasimo.
Ogni tanto nasceva qualche bisticcio fra Paura, Distrazione e Impazienza.
Succedeva quando per esempio Distrazione dimenticava una pentola sul fuoco e il cibo si carbonizzava spandendo per la casa un puzzo acre di bruciato. Paura iniziava a piangere terrorizzata: “Adesso respireremo qualche brutta sostanza che ci farà male e ci dovranno portare all’ospedale! Distrazione, è sempre colpa tua, tu fai i danni e a noi tocca rimediare. E se andava a fuoco la casa?” Impazienza invece si arrabbiava perchè aveva fame e il pranzo era andato in fumo: “E adesso cosa ci mangeremo? Ho fame, ho fame! E prima che prepariamo il pranzo chissà quanto tempo ci vorrà e io non ho nessuna voglia d’aspettare!" Distrazione borbottava offesa in un angolo: “Sempre la colpa a me! Se tu Paura non mi avessi distratta con le tue preoccupazioni su cataclismi e temporali, io non mi sarei dimenticata della pentola sul fuoco, Uffa!” Ma per fortuna arrivavano Allegria e Costanza e tutto si risolveva in un battibaleno. “Su, su, in fondo non è successo niente, mettiamo un po’ di musica per rallegrarci un po’. Appena mangiato ce ne andiamo a fare una bella passeggiata nel bosco. E’ periodo di more, ne raccoglieremo un bel cesto e poi faremo la marmellata!” diceva Allegria, mentre Costanza, senza battere ciglio si era già messa il grembiule davanti e stava tagliuzzando le verdure per fare una buona minestra  e Pigrizia, sbadigliando, si alzava dal sofà.

Insomma le 6 sorelle, ognuna con il proprio carattere e le proprie caratteristiche, convivevano in armonia e la vita scorreva in maniera lieve. Quando a Natale arrivarono  anche i tre fratelli l’armonia divenne ancora più completa. Entusiasmo si mise a giocare con Paura e la rassicurò: niente di male sarebbe potuto accaderle, doveva solo avere un po’ più di fiducia e stare tranquilla. E riuscì a farla ridere a crepapelle facendole il solletico, tanto che le rimase un bel sorriso stampato sulla faccia. Amore si dedicò a calmare Impazienza: la portò a fare una passeggiata e le insegnò a camminare lentamente, coordinando i respiri con i passi. Le spiegò che ogni volta che aveva voglia di fare qualcosa in fretta, doveva fermarsi e mettersi semplicemente a respirare. E dopo avrebbe potuto intraprendere le azioni scelte con più calma. Perdono parlò a lungo con Pigrizia: non doveva sentirsi in colpa se non era sempre attiva come le sue sorelle. Con l’aiuto di Costanza e di Allegria sarebbe presto  riuscita a essere più organizzata e leggera, senza stare a rimuginare troppo, perdendo così altro tempo. E infine si rivolse a Distrazione: “ Devi imparare a perdonarti. Per ogni volta che ti dimentichi di qualche cosa o perdi qualche oggetto. E vedrai, piano piano, allenandoti all’attenzione, potrai migliorare...” 
“Perdonarmi? Ma io sapevo che si dovevano perdonare gli altri e non se stessi!” 
E Perdono le disse che perdonare se stessi, proprio quello era il segreto della felicità.

mercoledì 20 maggio 2015

RAP '70





Di quegli anni venati di rosso passione, allegria, spensierata anarchia, ricordo l’odore di  patchouli e d’inchiostro, di nebbia e di vino, e di mandarino a profumare le stanze spalancate alle idee, serate fumose a parlare di tutto, cortei, occupazioni, slogan e canzoni di Dylan, Guccini, di Jara e degli Inti Illimani, fratelli fuggiti dal buio, e poi i viaggi, con tasche leggere e zaini pesanti, nottate sul mare aspettando l’aurora, gli amori sofferti e scoppiati, la coppia si apre, il dolore, gli esami, i ventotto sudati, facciamo assemblea, il privato è politico, dobbiamo lottare, questo mondo che soffre e che grida   lo faremo migliore, il Vietnam, il pane e le rose, gli zoccoli duri di cuoio, i capelli coi ricci, mangiamo da me, il riso integrale, ma l’amore cos’è? leggiamo un po’ Sartre e la De Beauvoir e anche Lee Master, rifiutiamo il sistema e la gente normale, sei troppo borghese, cioè, al limite hai anche ragione, sì, non so, forse no, parole mangiate, andiamo in Olanda in piazza Dam o in un' isola greca a bere retsina e a ballare il sirtaki, adesso mi  piaci, vuoi stare con me? sì, non so, forse sì, ma tu sei fedele? domanda bambina, apriamo le danze, poi dopo chissà,  faremo un lavoro per niente banale, scrittore, regista o inviato speciale oppure gli artisti, vivremo in un loft o in una comune fra galline e conigli, tessendo tappeti di lana cardata coi piedi mai stanchi, venderemo gioielli di pietra di lava, tutta la vita abbiamo davanti… che strano… fra sogni e canzoni, lacrime e baci, facciamo la pace? Il tempo è volato. Peccato

domenica 17 maggio 2015

SORPRESE DI VIAGGIO



Amo i treni regionali. O gli intercity, quei pochi che sono rimasti. Non amo le varie frecce, anche se devo riconoscere che la loro velocità mi permette di arrivare da Roma a Firenze in un'ora e mezzo. Ma non è per me un tragitto piacevole. Perché i sedili sono stretti, gli spazi angusti e mi tocca stare a una distanza molto ravvicinata con i miei compagni di viaggio, quasi sempre assorti a parlare, spesso a voce alta, al cellulare o intenti a scrivere qualcosa sul loro portatile oppure a fare dei giochetti rumorosi. Non ci si parla più sui treni ( a parte, qualche volta sui regionali) e non ci si scambiano più i giornali, in un baratto gentile che in qualche modo ci avvicinava e ci costringeva a sorriderci e a ringraziarci. Non si guarda più fuori dal finestrino
(io sì) perchè troppo assorti nel mondo virtuale. Persino i controllori, che passano sempre meno, sono più frettolosi e distaccati. Non sono un’anziana signora nostalgica dei treni a vapore, ma penso che non sempre la velocità sia qualcosa di positivo in assoluto. C’è stato un periodo, da giovane, quando ero ancora studentessa, che andavo spesso da Firenze a Parigi in pullman. Era un viaggio lungo e scomodo con solo tre o quattro tappe in qualche autogrill. Ci fermavamo ad Aosta, a Lione e in un’altra città che non ricordo. Guardavo dal finestrino il paesaggio cambiare, rimanevo incantata dai piccoli borghi aggrappati sui fianchi delle colline, dalla campagna che cambiava colore, dai fiumi, dalle case cantoniere, dalle montagne innevate. Mi addormentavo rannicchiata sul sedile e al mattino, quando arrivavamo a Parigi, a Place Stalingrad, ero stropicciata e assonnata e mi ci voleva subito un bel caffé, che non potevo certo pretendere fosse come l’espresso italiano, ma comunque mi faceva aprire gli occhi. In uno di questi viaggi una volta mi è successa una cosa bizzarra. In fondo al pullman c’era una tendina con dietro una cuccetta per il secondo autista. Mi accorsi che era vuota e andai a coricarmi. Caddi in un sonno profondo. A metà notte mi svegliai di soprassalto: un uomo si stava sdraiando nella cuccetta, dalla parte opposta a me. Io feci per alzarmi, ma lui mi disse in francese di non preoccuparmi, c'era spazio per tutti e due. La mia innata fiducia nel genere umano, mista alla stanchezza, mi fece decidere in un nano-secondo di restare. Non siamo soli, pensai, e alla prima avance potrei gridare. Ma sapevo che non ce ne sarebbe stato bisogno. Mi svegliai al mattino, dopo un sonno ristoratore. L’autista ancora dormiva e mi accorsi che mi teneva  una caviglia. Tutta la notte così, con la mia caviglia in mano, come un bambino che tiene la mano della mamma. Mi fece tenerezza e dolcemente mi svincolai. Lui aprì gli occhi e mi disse con un sorriso “Bonjour Mademoiselle!”. E il suo sguardo era azzurro e gentile. Ecco, questo è uno di quei ricordi che mi scaldano il cuore.

lunedì 11 maggio 2015

CON GLI OCCHI DELLA GRATITUDINE



La gratitudine è sorella della gentilezza. Ma è una parola che a volte spaventa. Perché può evocare, erroneamente, la sottomissione, l’inferiorità: sono grato perchè mi è stato fatto un piacere e io adesso ho l’obbligo di “sdebitarmi”. Ci sono persone che non amano ricevere regali. Per non dover poi ricambiare. Oppure, se andiamo più in profondità, perchè non si sentono abbastanza degne. Chissà quali colpe credono di aver commesso, quali dimenticanze, quali offese, per doversi in eterno privare della gioia di ricevere! E non solo regali, magari un complimento, un sorriso, una gentilezza. Chissà cosa ci sarà dietro, pensano, diffidenti. Che peccato. La gratitudine si impara da bambini, soprattutto se abbiamo dei buoni esempi. Se intorno a noi vediamo e sentiamo scorrere l’energia dell’abbondanza, in quel flusso benefico che è il dare e il ricevere, senza secondi fini, per la semplice gioia dello scambio, del dono. I bambini  sarebbero grati per natura. Guardate
la loro espressione quando ricevono un regalo o gli facciamo una sorpresa. Sono l’immagine della felicità, lanciano gridolini di gioia e battono le mani. Ma a volte, lentamente e inconsapevolmente, noi adulti instilliamo in loro il veleno della diffidenza. Certo lo facciamo in buona fede, non vogliamo che soffrano o rimangano delusi, ma con la nostra finta prudenza, la nostra iper-protezione, iniziamo a renderli poco alla volta guardinghi e sospettosi. E possono perdere la gioia della gratitudine.
Essere grati può diventare invece un modus vivendi, senza bisogno di occasioni speciali. Se continuiamo, anche da adulti, a coltivare la fiducia e la meraviglia, ogni piccola cosa potrà essere motivo di gratitudine. Basterà mettersi in ascolto e osservare con sguardo curioso e attento tutto quello che ci circonda.
E ogni filo d’ erba, ogni nuvola, ogni goccia di pioggia, ogni persona che incontriamo, ogni passo che facciamo, ogni giornata che viviamo, potranno diventare fonte di gratitudine. E di entusiasmo. Senza parlare poi delle cose che diamo per scontate. Dopo una malattia o un pericolo scampato proviamo un’infinita gratitudine. Ma quanto dura? E se imparassimo invece a sperimentare senso di gratitudine perchè possiamo vedere, sentire, camminare, parlare, abbracciare? Molti non possono farlo e fra di loro c’è chi prova gratitudine per il semplice fatto di essere vivo. E quindi perchè non ci alleniamo a sentire gratitudine per il non mal di testa, il non mal di denti, la non preoccupazione? E' un suggerimento che ci viene dal Monaco Zen vietnamita Thich Nhat Hanh Fare cioè il contrario di quello che abitualmente facciamo. Io di tanto in tanto

ci provo. Mi metto in ascolto e molte volte mi rendo conto che la rabbia, il dolore, l’ansia o il rimpianto non sono presenti, se ne stanno acquattati da qualche parte dentro di me e sicuramente prima o poi rispunteranno fuori, ma in quel preciso momento non ci sono e io mi sento serena. Perchè non dare valore a un momento così e concedermi di sentirmi profondamente grata e in pace?

lunedì 4 maggio 2015

L'ASCOLTO PROFONDO



A volte subiamo dei torti. O almeno ci sembra di averli subiti. E soffriamo. Ci sentiamo incompresi, fraintesi, offesi. Ruminiamo pensieri di auto-commiserazione e non riusciamo a trovare pace.
La persona che ci ha feriti diventa all’improvviso una presenza minacciosa e ostile e la sua vicinanza ci procura una sensazione sottile di malessere e avversione. Diventiamo all’improvviso vigili e attenti a ogni sua parola che sicuramente, prima o poi, ci porterà alla memoria il torto subito. Se c’era un’amicizia l’amicizia si incrina, come pure un legame d’amore. “Come hai potuto farmi questo?” gridiamo oppure pensiamo, senza avere il coraggio di chiarire. E se l’altro prova a spiegare le sue ragioni noi scuotiamo la testa prevenuti, senza ascoltare, con il viso in fiamme e il cuore impazzito. Rabbia, rancore, guerra. Un nero di seppia intorbida il mare dei nostri pensieri e non vediamo luce, chiarore che ci possa consolare. A volte passano poche ore, altre volte giorni, nei casi peggiori anni. Ci sono fratelli  che non si parlano più. Per tutta la vita. O genitori e figli. Oppure amici. Con quel dolore sordo al quale non riusciamo, anzi non vogliamo dare tregua. E se qualcuno cerca di fare da mediatore o da paciere, ci rendiamo conto, che c’è un attaccamento al nostro dolore, che ci impedisce di mollare la presa. Perchè in fondo ormai ci siamo affezionati a lui, è diventato parte di noi, è diventato, crediamo, la nostra corazza, la nostra impalcatura. E senza ci sentiamo persi, ci sentiamo fragili. E magari, dopo un po’ di tempo, quando ormai la situazione sembrava irrimediabilmente compromessa, ci rendiamo conto, per una frase detta o riportata, che si era trattato solo di un fraintendimento, una percezione erronea. Ci eravamo sbagliati. Oppure semplicemente avevamo ingigantito un episodio che di per sé non era poi così grave. Solo che lo avevamo farcito di proiezioni, interpretazioni, paure. Come evitare tutta questa sofferenza? Ascoltandosi e ascoltando. 
Che non è una cosa facile. Riusciamo a renderci conto delle espressioni del nostro viso, 
dei nostri gesti impazienti, dei pensieri che ci distraggono dall’ascolto di chi ci sta di fronte? Riusciamo ad ascoltare con calma la persona che è davanti a noi, dandole tutto il tempo di esprimersi, senza interromperla, senza pensare a quello che vogliamo risponderle ancora prima che abbia finito, senza giudicare quello che sta dicendo? Quanti di noi ci riescono e quante volte? Lo vediamo bene nei talk show. Urla, interruzioni reciproche, offese. Volti deformati dalla rabbia, dall’aggressività, dall’ostilità. Ma esiste un modo diverso di ascoltare, nel quale ci possiamo esercitare. E’ l’ascolto profondo. Un ascolto fatto di pazienza, amorevolezza, empatia, non giudizio, disponibilità e apertura. Che poi sono qualità che se “frequentate” anche in altri ambiti, non possono che farci del bene. E se il nostro interlocutore la pensa in maniera diversa da noi, possiamo, con calma, sostenere le nostre motivazioni, senza pretendere che vengano accettate. Possiamo anche rimanere ognuno della propria opinione, tenendo comunque alto il livello della comunicazione, in un ambito di rispetto e comprensione.
Siamo tutti esseri umani in questa meravigliosa avventura che è la vita. E dovremmo sostenerci gli uni con gli altri, con gentilezza e tenerezza. Ognuno di noi sta combattendo la sua battaglia, ognuno di noi vuole essere riconosciuto e accettato. Ognuno di noi ha un’anima sensibile, a volte impaurita, a volte provata dalle vicissitudini. Sorridiamoci un po’ di più. Le neuroscienze ci spiegano che i movimenti dei muscoli del viso deputati al sorriso, vanno ad attivare delle zone del cervello deputate alla gioia, l’allegria, la gentilezza, in uno scambio continuo di cause ed effetti. La gioia fa sorridere, il sorriso provoca la gioia. E’ nato prima l’uovo o la gallina? E fate un esperimento: per la strada provate a sorridere alle persone che incontrate. Vi risponderanno con un sorriso. E sarà una cosa bella .