mercoledì 24 giugno 2015

PAURA DI VOLARE


Negli ultimi anni mi è venuta la fobia degli aerei. Nei giorni che precedono il volo mi faccio prendere dall' ansia e in qualche modo mi perdo il piacere, che sempre precede i viaggi, di assaporare l’attesa  immaginando le sorprese che mi aspettano. Ma incombe su tutto la Paura, la Grande Paura. Che si manifesta, come tutte le paure perbene, con una serie di sintomi: insonnia, tachicardia, tremiti, respiro corto. In fila, prima di salire sull’aereo, mi sembra di essere una che sta per andare al patibolo. Ansia anticipatoria. Che in pratica è semplicemente una tensione fra l’Adesso e il Poi. Nel momento in cui salgo, l’ansia si trasforma in Terrore, in tutte le sue sfaccettature. Ma siccome io sono un’esploratrice e una viaggiatrice, non posso certo farmi limitare da tutto questo e allora voglio esplorarla quest’ansia, la voglio visitare. E quando lo faccio scopro delle cose molto ma molto interessanti. Intanto, guardandomi intorno, mi accorgo che non sono la sola ad avere paura. E questo un po’ mi consola. Volare NON E’ NATURALE. Non siamo uccelli. Abbiamo bisogno di stare con i piedi ben piantati per terra, come le radici degli alberi. E anche navigare, a pensarci bene, in quest’ottica... Ma questo è un altro discorso. Avete presente le facce dei passeggeri di un aereo al momento del decollo? Chi fa finta di niente e legge il giornale. Ma deglutisce molto rumorosamente. Chi si abbandona sullo schienale, occhi chiusi e mani strette spasmodicamente ai braccioli. Chi si fa il segno della croce. Chi tiene la mano del proprio compagno o peggio ancora del proprio bambino, facendo finta di rassicurarlo. Insomma un campionario piuttosto variegato. Poi si parte. Nessuno parla. Nessuno si muove. Finalmente, una volta  acquistata quota, si sente di nuovo circolare il sangue nelle vene e la vita riprende. Almeno per gli altri passeggeri.
Qualcuno si mette a chiacchierare o a guardare un film, qualcun altro si alza o inizia a mangiare. Io non faccio niente di tutto questo. Per calmarmi inizio a bere. Un sorso d’acqua ogni 5 minuti. Questo mi scandisce il tempo e mi tiene idratata. Ho letto che in aereo la pelle si può disseccare se non si beve abbastanza. E non voglio arrivare a destinazione come una mela avvizzita.  E poi inizio ad aspettare. Che cosa? LE TURBOLENZE. Che non è detto che ci siano, ma almeno un paio di volte, in un volo breve, accade che si manifestino. Quindi occhi fissi sui segnali luminosi e orecchie ben aperte per sentire l’eventuale annuncio: SIGNORE E SIGNORI SIETE PREGATI DI SEDERVI E DI ALLACCIARE LE CINTURE PERCHE’ STIAMO PER ATTRAVERSARE UNA ZONA DI TURBOLENZA. Quello dell’annuncio è il momento più terribile. Lì chiudo gli occhi e qualche volta prego. Ma subito avviene il miracolo. E questa è la scoperta principale: quando iniziano le turbolenze io non ho paura. Sono attenta, vigile, concentrata su quello che succede: i rumori, le espressioni delle hostess, quasi sempre impassibili, la vista dall'oblò, gli scossoni dell’aereo, che a pensarci bene, spesso sono inferiori di molto a quelli della corriera che mi porta a prendere il treno a Monte San Biagio. Ma non ho paura.  Poi la turbolenza finisce e io mi ritrovo a sperimentare uno stato di profonda quiete, quasi orgogliosa di aver sopportato eroicamente e con i nervi saldi quello che tanto temevo. Può ripresentarsi una leggera ansia in attesa della turbolenza successiva, se mai ci sarà, ma SO che ce la potrò fare, anche questa volta. Paradossalmente mi godo il resto del viaggio e quando annunciano la fase di atterraggio, nella quale di solito sono frequenti turbolenze piuttosto consistenti, non ho nessuna paura. Mi godo dal finestrino le luci della città, il paesaggio, le piste illuminate, mi godo il leggero tuffo allo stomaco, che stavolta è indice di emozione e non di ansia. Sto arrivando a destinazione, sono felice. Tutto questo per dire cosa? Che spesso la nostra è solo paura della paura e che quando accadono alcuni eventi che temiamo fortemente, se siamo pienamente presenti possiamo viverli  e superarli in maniera efficace. E renderci conto che non erano poi così paurosi, non erano poi così terribili come ce li eravamo immaginati.
E così ogni volta che scendo dall’aereo, dopo l'applauso al comandante, che per un attimo mi piace  immaginare sia rivolto a me, esprimo questo desiderio: "La prossima volta voglio godermi TUTTO il viaggio!"



domenica 21 giugno 2015

IL GRANDE MARE

Con che sguardo guardiamo le cose? Puro? Prevenuto? Condizionato? Curioso? Diffidente? Aperto? Possiamo reimparare a guardare come fanno i bambini? Con meraviglia e curiosità, senza giudizio?
Una semplice passeggiata, se ci soffermiamo a guardare quello che abbiamo intorno come se lo vedessimo per la prima volta, può diventare un’esperienza nutriente e rigenerante. Ogni albero è diverso dall’altro, ogni nuvola, ogni passaggio di luce, ogni  scorcio. Il momento in cui osserviamo le cose e le sperimentiamo è unico: non ci sarà mai più quella combinazione di oggetti, suoni, profumi, luci. Perché le cose cambiano di momento in momento e l’illusione che siano sempre uguali, non ci fa che del male. Perché è un’illusione che ci ancora al passato o ci proietta nel futuro, luoghi temporali che non esistono. Quello che esiste è solo questo unico momento, con tutto quello che lo attraversa. Impariamo a stare nel flusso. E così, come il cielo, che non è mai lo stesso, anche le nostre emozioni sono destinate a fluire, a cambiare.
Se monitorassimo nell’arco di una giornata i nostri pensieri e i nostri stati d’animo, potremmo accorgerci che cambiano di continuo e non li possiamo fermare. Ma questa è una bella notizia, non deve spaventarci. E’ come fare  surf, le onde, anche quelle più imponenti, si possono cavalcare e ci si può divertire un mondo. Se ci svegliamo tristi magari dopo qualche ora non lo siamo più e la rabbia che a volte proviamo, se non la alimentiamo, poi svanisce, non c’è più. Dov’è andata? Nel grande Mare delle emozioni, che a volte è calmo, a volte è agitato, a volte freddo e minaccioso, altre volte tiepido e accogliente. Non attacchiamoci spasmodicamente agli avvenimenti. Sono solo fenomeni, poi passano: quello che ci ha fatto molto soffrire, un giorno ci farà sorridere oppure la ferità brucerà un po’ quando cambia il tempo e allora dovremo prendercene cura. Come? Con la dolcezza, la pazienza, il lasciare andare. Lasciare andare cosa? Il risentimento, il rimuginio, il senso di colpa o di vendetta. Basta. E’ una parola magica che a volte dovremmo dirci, a voce alta, quando nella nostra mente si sta proiettando un brutto film, con scene del passato o anticipazioni catastrofiche sul futuro. Basta. Cosa posso fare in questo momento? cosa c’è da fare in questo momento? Le cose semplici, le semplici cose di tutti i giorni, le azioni minime, quelle, ci possono salvare. Mettendo attenzione e cura in tutto quello che facciamo, aiutati a volte, quando ce lo possiamo permettere, dalla lentezza e dal silenzio, togliamo energia alla mente dispettosa che rimugina o minaccia o giudica. Basta. E allora si apre un grande spazio, uno spazio luminoso e calmo, in cui entrano finalmente le cose belle, i pensieri salutari, la gratitudine. E proviamo finalmente pace.

martedì 16 giugno 2015

"IL CIRCO STRAMBO" E "LE COSE BIZZARRE" -due filastrocche

Ogni tanto ne scrivo una. Per dare spazio alla bambina che è dentro di me e qualche volta  mi strattona e mi dice: dai, divertiamoci un po', giochiamo con la fantasia! E io mi metto lì e scrivo una filastrocca. Quando inizio non finirei più, ne scrivo subito un'altra e un'altra ancora. E dopo mi sento più leggera e contenta.


Illustrazione del Pittore Giuseppe Cittadini
Il Circo strambo


C’è un signore con i guanti
che cammina sopra un filo                  
mentre quattro saltimbanchi
fanno a turno col fachiro

poi c’è un grosso mangiafuoco
che mi fa quasi spavento
e una scimmia che fa il cuoco
spettinata dal gran vento

il leone ha mal di denti
la giraffa fa il dentista
che guarisce i suoi pazienti
accovacciata sulla pista

ma le viene il torcicollo
si è chinata troppo giù
svelto arriva il vecchio gallo
sulla groppa di un zebù

le vuol fare un bel massaggio
che la possa rilassare
solo in cambio
chiede un passaggio
fino alla riva del Gran Mare

certo è un circo proprio strano
dentro e fuori e via dal tempo
in un posto  assai lontano
senza tristezza e senza tormento

è il paese di Buona Fortuna
qui tutto di un po’ succede
il sole gioca con la luna
e quello che vuole uno lo chiede.




Le cose bizzarre
Illustrazione del Pittore Giuseppe Cittadini

Ho visto un gatto su un muretto
con un occhio blu  e uno nero
acciambellato stretto stretto
sembrava il gatto del mistero
oppure una statua
di pietra
a proteggere quella casa
che pareva piuttosto tetra

poi si è stiracchiato al sole
con il pelo luccicante
e ha annusato un’aiuola di viole,
visto così sembrava più rassicurante

a volte ci facciamo spaventare
da una cosa che non segue il solito verso
invece di lasciarci affascinare
da ciò che è bizzarro o diverso

quel gatto misterioso
aveva la sua bellezza
in quel particolare prezioso
che annullava ogni certezza

chi l’ha detto che gli occhi di un gatto
devono avere lo stesso colore?
Forse l’ha detto un povero matto
che era sempre di malumore.



Piaciute?
















lunedì 8 giugno 2015

I SOGNI CI INDICANO LA STRADA



I sogni ci indicano la strada.
E ci dicono a che punto siamo del nostro cammino. Per anni ho fatto un sogno, sempre lo stesso, anche se cambiavano i particolari. Sognavo di entrare nella mia casa di Firenze, quella dove abitavo quando ero studentessa all’Università. Più o meno nel sogno succedeva così: trovavo la porta socchiusa e entravo. La casa era in penombra, con gli stessi mobili e oggetti di quando io l’abitavo. I nuovi proprietari erano fuori e io avevo l’ansia che rientrassero da un momento a l’altro e mi scoprissero. Camminavo lentamente per le stanze, prendevo in mano i libri, i piccoli soprammobili, a volte erano impolverati e c’erano delle ragnatele, altre volte si confondevano con gli oggetti dei nuovi inquilini. Provavo una sorta di struggimento e di nostalgia, mista a tristezza: non era più casa mia, io ero lì clandestinamente e avevo poco tempo per restare. Di solito me ne uscivo dalla porta con un respiro di sollievo, misto a malinconia, per dovermene andare. Ma stanotte è andata diversamente. Ero in viaggio e volevo visitare la casa. Come al solito la porta era socchiusa. Mi sono affacciata. C’era una penombra che questa volta non mi invitava ad andare oltre. Ho sentito che tutto sommato quelle stanze non mi interessavano più. Ho chiuso la porta dietro di me e mi sono incamminata nel pianerottolo, verso l’uscita. C’era una grande luce e del brusio che veniva dalla strada. Vita. Non ho sentito il bisogno di voltarmi e ho detto a voce alta questa frase: “Ho tanti motivi per uscire da qui e andarmi a divertire.”
Credo che non rifarò più questo sogno. Quella casa, come tutte le altre, tante, in cui ho vissuto, è nel mio cuore, ma non ho bisogno di ritornarci, come si fa con le tombe dei morti. Oltre quel portone del sogno ci sono rumori, colori, profumi, vita in movimento, persone. E io adesso mi vorrei proprio divertire.

mercoledì 3 giugno 2015

ISCHIA



Al mattino salutavano il sole. Erano movimenti allegri e gentili, che davano energia e nutrimento a quell’inizio di giornata, che si prospettava luminosa e calda. In quel bell’albergo dalla piscina protesa sulla scogliera.

Dall’alto il mare luccicava e il vento era una carezza appena accennata sulla pelle, quasi un bisbiglio.

L’Isola, lassù sulla cima, era silenziosa e verde. Grandi prati, qualche vigna, alberi di fico, gelsomini e bouganvilles di un rosso carminio, gerani enormi dei più svariati colori, e semplici fiori di campo, soprattutto gialli, sul ciglio della strada. Un incanto. E verso il tramonto si accendevano i profumi di macchia e si poteva distinguere a tratti, più intenso degli altri, il profumo d’origano e, come sottofondo, lieve, quello di timo. L’aria si faceva più fresca e bisognava coprirsi le spalle. Ma  era asciutta e frizzante, e il cielo, con la luna che stava crescendo, era limpido, di un blu cobalto, con qualche striatura di viola.


Gli abitanti dell’Isola erano gentili e sorridenti. Ti davano indicazioni particolareggiate, se ce n’era bisogno ti accompagnavano per un tratto di strada, ti chiedevano curiosi se il posto ti piaceva e al tuo sì sembravano felici. Persone semplici, vissute nella bellezza, che le aveva plasmate e rese ospitali e benevole. E si sa, la bellezza è contagiosa. Anche le case, nella loro semplicità, di bianco e di blu, ispiravano armonia: piccoli giardini fioriti o corti ombrose, tende chiare di cotone, senza sfarzo, tavolini e sedie di bambù  o ferro battuto. E piccole pensioni di tipo familiare, con una vista mozzafiato. Sembrava di essere in un luogo senza tempo, dove gli anni si erano fermati, senza la volgarità e lo schiamazzo di certe insegne, di certe costruzioni. Semplicità e calore. E quel dialetto, così caro, così ricco di sfumature, che ti faceva sentire protetta, al sicuro. A casa.

“Chissà come sarà qui l’inverno...” quel pensiero era balenato a più di qualcuno.

Sicuramente mite. Con qualche giornata di umido e di freddo. Con il mare in tempesta e nuvole minacciose. Ma poi il sole e sprazzi di blu e un’aria fredda e asciutta che taglia la faccia, forse il Maestrale. Sicuramente un inverno corto. Con feste di paese, processioni, veglie di Natale e i dolci fatti in casa. E matrimoni, battesimi e comunioni e qualche funerale. Come in tutti i paesi. Ma nell’Isola, con quel mare a fare da confine, tutto era probabilmente più dolce e più intenso. Una grande famiglia, che si stringeva e che condivideva tutto, gioie e dolori, benedetta dalla bellezza e dalla grazia.

Partire era stato come lasciare un amante affettuoso. Ma si sarebbero rivisti presto, non era un addio. E l’attesa sarebbe stata ampiamente ricompensata.