martedì 28 luglio 2015

TUTTO L'AMORE DEL MONDO





Un uomo e una donna sono seduti uno di fronte all’altra. Li divide un tavolo di legno chiaro. Lei ha lunghi capelli neri e un vestito rosso fuoco. Lui ha la barba sale e pepe, è vestito di scuro e ha delle scarpe da ginnastica bianche e nere. Prima di lui su quella sedia  si sono sedute per un minuto alla volta, molte altre persone. In silenzio. Occhi negli occhi con la donna in rosso. E’ una performance all’interno di una mostra retrospettiva al MoMA di N.Y.  Il titolo è “Artist is present”. 



Mi è successo molte volte, all’interno di seminari di crescita personale e durante la mia formazione come Art Counselor, di fare questo esercizio. Ed è un’esperienza sempre molto intensa e commovente. Guardare negli occhi uno sconosciuto, una persona che si conosce poco, ma anche un amico, all’inizio è imbarazzante, si fa fatica a non abbassare lo sguardo, il cuore accellera i battiti, a volte si prova vergogna, addirittura fastidio. Il tempo sembra non passare mai, eppure si tratta solo di minuti. Ma a un certo punto c’è uno scatto. Gli occhi che guardiamo ci diventano all’improvviso familiari. In quello sguardo riusciamo a intravedere un mondo. Entriamo in intimità con quello sguardo e accade che vi scorgiamo un baluginio che ci commuove. E’una sorta di umanità arresa che ci mette l’uno in balia dell’altro, nudi. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, è proprio vero, con gli occhi non si può barare e in quei  minuti noi siamo sinceri, ci consegniamo all’altro, ci arrendiamo, non al nemico, ma all’amico che è lì davanti a noi e ci diventa specchio. Alla fine, immancabilmente, gli occhi di entrambi si inumidiscono. Qualcosa si è sciolto, emergono tenerezza, fragilità, affetto, condivisione. Abbiamo creato un ponte di sguardi, abbiamo rotto l’incantesimo che ci rendeva estranei, ostili, diffidenti.
Ecco, tornando alla donna in rosso e all’uomo seduto davanti a lei al MoMA,  nel meraviglioso video che ho avuto il dono di vedere, accade qualcosa d’imprevisto. Lei è l’artista serba di fama internazionale  Marina Abramovic, lui è Ulay, il compagno di vita e di lavoro da cui si è separata trent’anni fa. Prima di lasciarsi, nella loro ultima performance insieme, dal titolo “The lovers” i due hanno camminato ciascuno da un lato della Muraglia Cinese per 2500 Km, per poi incontrarsi a metà strada e dirsi addio. Da allora non si sono più rivisti. Lo sguardo di Marina, quando riconosce Ulay, lo stupore, la tenerezza, la commozione che emana, e l’amore che subito trasuda dagli occhi umidi di Ulay, e quella mano che Marina gli porge, quella stretta, prima che lui si alzi e lasci il posto ad un'altra persona su quella sedia... sono una cosa meravigliosa.  Per qualche istante Marina rimane trasognata, poi si asciuga  gli occhi e nel suo sguardo, che regala alla donna seduta di fronte a lei, c’è tutto l’amore del mondo.


 

domenica 26 luglio 2015

TRE POESIE




Nelle mie stanze imperfette

mi tengo prigioniera

ho fatto voto da anni

so mantenere gli impegni

nessuna distrazione dalla meta

guardare fisso il mare

finché la luce non scolora

aspettare l’arrivo delle rondini

riconoscere le crepe

misurandone a occhio nudo

spessore e lunghezza

raschiare via la terra dai bulbi secchi

fino alla prossima fioritura

tenere sempre l’acqua in caldo

per un tè

nel caso arrivassero amici

quell’ora è sacra

fra giorno e notte

a segnare il confine

me la godo con calma

in silenzio

piccole nuvole in tondo

presagi

le pietre squadrate

nel ventre aperto del teatro

colonne romane

metafisico spazio

di cui io sono regina.


 





Adesso sarei pronta
Ma non ho più fretta

I preparativi

I rituali

Le cerimonie

Hanno fatto il loro tempo

Semplicemente aspetto

Intanto mi ascolto

Accordo i miei tasti

Riprendo lo specchio

Per grattare la patina

E il velo

Quello che vedo

Non mi spaventa

Me lo sono meritato

Quindi di che lamentarsi

È il guadagno di anni

In solitudine imperfetta.






L’odio non lo conosco

E neppure l’invidia

Solo un fastidio a volte

Che poi svapora

Conosco le mie trame

I fili

I rammendi

Gli strappi

Ma non so cucire

Non ho mai imparato

Ti ricordi?

Facevi l’orlo ai pantaloni

Senza giudicarmi

Io m’occupavo d’altro

Ognuno ha i suoi talenti.




















lunedì 20 luglio 2015

QUATTRO POESIE




Sui proverbi

Prepararsi al meglio
sono tornate
le mezze stagioni
l’erba del vicino
non è così verde
e moglie e buoi
sono meglio stranieri
figurarsi poi
se una rondine
non è da festeggiare
in tripudio di fiori
nessuna nuova
è brutto segno
e i figli
a volte non sono pezzi di cuore
ma coltelli
verba manent
più di quello che pensiamo
la vita non comincia
a quarant’anni
ma a sessanta
dimentica che devi morire
CARPE DIEM
è l’unico monito che resta.








Un cimitero di parole
appuntamenti
presentazioni
eventi
già passati
e tutto si affastella
nella rete
senza un pescatore svelto
a buttare in mare
scarpe rotte e spaiate
solo un disordine forzato
basterebbe cancellare
quello che non serve
avere il coraggio di gettare
il vecchio
prima che diventi
un fantasma senza voce
a tirarti per i piedi
nel tuo letto.











2012

E se come nel film piovessero rane?
Dovremmo arrenderci al mistero
e  ridere a squarciagola
ordine invertito finalmente
nessuna certezza
e questo ci renderebbe
curiosi e sereni
forse sbarcheranno gli alieni
faremo amicizia
e impareremo l’astronomia
l’anno della fine del mondo
sarà l’anno della trasformazione
tutti in fila a ricevere abbracci
tutti a coltivare il proprio orto
le città diventeranno giardini
e nei cortili la sera
i grandi leggeranno poesie
e fiabe i bambini.





Oblio

Adesso ti chiamo

“Hai riposato?”

“No con questo caldo”

“Bevi, mi raccomando

e bagnati la fronte”

parole semplici

briciole di pane

tenerezza accorta

che diventa pianto

perchè il tempo non dà scampo

e questo tu lo sai

e me lo dici con gli occhi

appena un po’ velati

di rimpianto



è come se il calendario

si fosse imbizzarrito

giorni e mesi stravolti

in un disordine improvviso

e a pensarci bene anche le annate



oblio consapevole

due parole per dire

che cerco di non pensarti

troppo è lo strazio

e vivo ogni momento

come se tu ci fossi

so che ci sei ma dove?

fammi un cenno

sussurrami alle spalle

sostienimi

fammi una smorfia buffa

ridi  forte

per una cosa stupida

fumati pure una sigaretta

non mi disturba più adesso

ma fatti viva

riprendi a lamentarti

affacciati ogni mattina

a quella casa rosa

preparati la cena

salutami con quel sorriso triste

ritorna.




































































































mercoledì 15 luglio 2015

PRESENTE



Presente. Quanti significati  e quante sfumature abbraccia questa parola...


"Presente!" si risponde all’appello in classe, oppure in caserma. Eccomi, sono qui, il nome segnato sulla lista o sul registro corrisponde a una persona reale che risponde, con la propria voce. Presente. Ci sono


Essere presente. A se stessi e a quello che sta succedendo. Esserci, con il corpo, la mente, le parole, i gesti. Non essere distratti, non essere altrove con il pensiero. Non fantasticare, oppure, se lo si fa, esserne consapevoli.



Momento presente. E’ l’unico che abbiamo a disposizione. L’unica unità di tempo reale con la quale confrontarci. Il resto è ricordo o sogno o proiezione, o immaginazione. E, se siamo presenti (vedere punto precedente), è il nostro momento, ricco di significato e unico, prezioso, anche quando è doloroso, perché è un momento della nostra vita che scorre e si manifesta, nella sua impermanenza e perfezione. Ma si può parlare di perfezione quando c’è dolore? Noi il dolore non lo vogliamo, non l’accettiamo. E con il nostro rifiuto, con la nostra resistenza, che ci rende duri, coriacei, crediamo di difenderci; invece così il dolore lo perpetuiamo, lo rendiamo più intenso, lo rendiamo ancora più devastante. Al dolore aggiungiamo sofferenza. E la sofferenza sì, non il dolore, possiamo evitarla.





Presente. Vuol dire anche dono, regalo. E quale dono, oltre ai regali che facciamo nelle più svariate occasioni, è più prezioso della nostra presenza? Con i figli, con gli amici, i nostri familiari... Esserci, a volte in silenzio, ma esserci. Sono qui per te, ti ascolto con il cuore aperto, non ti giudico, ti sostengo con la mia vicinanza discreta, ti faccio un sorriso, una carezza, ti aiuto oppure semplicemente ti resto vicino, ti voglio bene. Questo è il dono più grande, “the present”, che ci possiamo fare gli uni con gli altri. E non  costa niente, anche se è il più ricco dei doni. E ci cambia la vita.

domenica 12 luglio 2015

2 POESIE



 



Forma temporanea
Aggregazione
Chi sono io?
I miei occhi?
Oppure la bocca
Le braccia le mani
La pelle?
Cos’è che mi tiene
E mi unisce
In reticoli ombrosi
E profondi
Che pulsano
E fremono?
Un insieme di cause
E invisibile senso
Che strugge
Se solo io provo
A comprendere
Ciò che non posso
E non devo
Allora mi arrendo
Io sono il mistero
Di acqua e di sangue
E colline nei seni
E scapole alate
Di angeli amici
A un mio cenno
Fra due mondi
Confusi e vicini
Di notte e di giorno
Di buio e di luce
Di vita che brucia
E si chiede bambina
Cos’è? 
 




Fare spazio
Rendersi conto del vuoto prezioso
Che c’è fra gli oggetti
Del pulviscolo nel raggio dorato
E della sterlizia
Che sta per schiudere
Nuove foglie ancora più verdi
Dare un nome a ogni cosa
Catalogare con tenerezza
Le molteplici vite
Che abbiamo attraversato
Lasciandole andare
Per non appesantire scaffali
Piegati ormai per il peso
Poche cose
Il piccolo tappeto di Istanbul
La civetta di Assisi
La cesta di Lima
La pietra di Nazca
L’alpaca rosata
Poi basta
E i libri ingialliti
Le mappe
Le tappe
Di un viaggio
Che ha ancora bisogno
Di tempo



















lunedì 6 luglio 2015

SI' VIAGGIARE...






Prima del viaggio. E dopo. Una linea netta di demarcazione. Un confine. Qual è la parte giusta? Non si sa. Da che parte c’è più dolore? O più gioia? Prima o dopo? Un viaggio ti cambia per sempre. Persino i viaggi brevi, quelli di poche ore, fatti magari su un treno regionale, con i sedili macchiati di chissà  cosa e briciole di pane dappertutto. Ma ti basta incrociare lo sguardo di una ragazza nigeriana che ti fa un sorriso schivo e tu incominci a fantasticare sulla sua vita, chissà, magari fa la prostituta, ha un ragazzo che la sfrutta o forse no, fa la badante e sta mandando i soldi a casa, oppure studia medicina, ma quello sguardo umido comunque ti ha cambiata, ti ha fatto sentire un po’ meno sola e più viva, appartenente a questa umanità dolente e vitale, che chiede solo giustizia, pane e un po’ di amore.
Poi ci sono le vacanze. Anche quelle ti cambiano. A volte diventano la traccia luminosa di un incontro, magari breve, ma intenso, amici, amori, albergatori gentili, automobilisti che ti offrono un passaggio, come ai vecchi tempi, quando si viaggiava in autostop. Mi è successo a Itaca qualche anno fa. Stessa emozione: la schiena  appoggiata sul sedile di una vecchia Renault, qualche discorso sul tempo e sulla Grecia che non è cambiata, efkaristos para poli, e ti accorgi che gli anni non hanno fatto scempio, non ancora, la nostalgia è sempre la stessa, di scoprire, annusare, camminare e impolverarmi sul ciglio di un sentiero bordato di salvia e  origano, profumato fino allo stordimento.
Mai stata in un villaggio turistico. E’ il mio orgoglio, il mio vanto. Come avrei potuto dopo quel viaggio? Il viaggio. Continuo a cercare alberghetti a poco prezzo o stanze presso qualche famiglia, oppure ostelli o un Kibbutz, come l’ultima vacanza in Galilea. Non è una forma di snobismo al contrario la mia. E’ desiderio di restare fedele a quella che ero, un po’ temeraria e incosciente, sempre pronta all’imprevisto, a cambiare itinerario all’improvviso, a sovvertire i programmi.
E’ questo per me il bello del viaggio. Non so se fra una decina d’anni getterò la spugna, ma mi piace immaginarmi come una di quelle vecchie signore che ho incontrato, spesso da sole, vestito a fiori di cotonina, cappello di paglia e zaino leggero, qualche macchia d’età sulle mani e sul decolleté, rughe di allegria intorno agli occhi e piedi agili nelle scarpe da tennis. Spero di non far stare troppo in apprensione mia figlia, come probabilmente avrò fatto stare in apprensione mia madre quando partivo…
Adoro viaggiare in treno. La nave mi piace, ma il mare non deve essere agitato. Con l’aereo sto facendo, da poco, la pace. In treno ho inventato un gioco: guardo incantata dal finestrino e immagino di accarezzare con un dito i contorni delle cose che scorrono veloci, sentendone la consistenza. E così accarezzo la lanugine dei prati, sfioro gli aghi dei pini, sento il ruvido delle tegole vecchie e il liscio gommoso dei cavi elettrici, il freddo della lamiera di capannoni e fabbriche, le pietre bagnate di pioggia, i ciottoli lisci delle spiagge sulla riviera… In tutto questo trovo molta poesia e se poi mi capita sottomano un tramonto con le nuvole infuocate, allora sì che non vorrei mai scendere da quel treno e continuare a viaggiare, senza fermarmi mai.

In Guatemala la marca dei sedili di finta pelle blu dei pullman era “blue bird”: un piccolo marchio argentato che sembrava un gioiello e quasi stonava con la carrozzeria sgangherata, le tendine strappate e la miseria delle donne indie, con i loro coloratissimi huipiles ricamati e i bambini addormentati sulle spalle.  
Il treno per Puerto Limon in Costa Rica aveva i sedili di legno, come quelli di terza classe sui nostri treni molti anni fa. Donne e uomini viaggiavano separati, per evitare violenze, visto che il tasso alcolico fra i viaggiatori era piuttosto elevato.
Il battello  che ci portava a Livingstone sembrava quello di Braccio di Ferro, tutta la notte tuoni e fulmini, non potevamo ripararci da nessuna parte, eravamo all’aperto, ricordo che ho pregato, Angelo di Dio, che sei il mio custode, ti prego salvaci… Ma il mattino dopo, con la testa che mi girava e le gambe ancora molli, davanti a una tazza di caffè americano e a un piatto di riso con le banane, la mia vena religiosa si era già affievolita.
Viaggiare per conoscere e conoscersi. Ogni volta è una sfida. Cosa scoprirò di me? Quali limiti supererò, magari senza accorgermene? Quanti maestri incontrerò.? Quali insegnamenti mi darà la natura? Quante volte piangerò e riderò?. Cosa assaggerò di più saporito e profumato? Quali regali piccoli e preziosi mi porterò dietro? Quale sarà la paura da affrontare?
Per i viaggi brevi o le vacanze non è difficile rispondere a queste domande. C’è quasi sempre un comune denominatore, fatto di imprevisti, aneddoti curiosi, incontri interessanti e nostalgia al ritorno, che dopo un po’ si affievolisce, lasciando spazio alla tenerezza. Ma per gli altri viaggi, quelli che potremmo chiamare “iniziatici”, perché segnano un passaggio da una condizione a un’altra, da un tempo a un altro, da una consapevolezza a un’altra, dare risposte è più complicato, ci vuole più attenzione.
Il mio viaggio in Centro e Sud America, il viaggio che mi ha cambiato la vita, è stato sicuramente un viaggio iniziatico, al quale mi stavo preparando da tempo, anche se forse in maniera inconsapevole.
La mia non era voglia di tagliare i ponti, ma semplicemente di vedere cosa ci fosse dall’altra parte del mondo da imparare e da scoprire. Innanzitutto una nuova lingua. Non è un caso che la mia tesi di laurea sia stata su Cuba e che abbia dovuto imparare lo spagnolo, un po’ da sola, un po’ frequentando un breve corso presso l’associazione Italia-Cuba. L’America Latina mi aveva sempre incuriosita e i miei studi in sociologia dell’educazione mi avevano fatto conoscere modelli di ingiustizia sociale e disuguaglianza che a Cuba, attraverso una massiccia campagna di alfabetizzazione, pareva invece fossero stati superati. Non bisogna dimenticare il clima di quegli anni: gli ideali, la politica, il femminismo, la partecipazione…E io di tutto questo ero impregnata. Non sapevo che al mio ritorno, nel 1982, avrei trovato altre atmosfere, molto meno romantiche e avventurose. Dopo gli anni della contestazione e quelli di piombo eravamo entrati nell’epoca del riflusso e dell’ Edonismo reaganiano. Brutti termini, per indicare la spregiudicatezza, il cinismo, il carrierismo sfrenato. Niente più gonne fiorate, zoccoli e capelli scapigliati, ma donne in carriera, tailleur firmati, tacchi a spillo e uomini con il borsello. Spiazzante. Quelle come me dov’erano finite?

Cosa ho scoperto di me durante il viaggio?
Per prima cosa che potevo addomesticare la paura e farmela mia amica. Io che a Firenze entravo nel panico se vedevo un piccolo ragno, in Costa Rica ho vissuto per quasi due mesi nella foresta, in una casa senza luce e senza acqua, dove, prima di andare a letto, controllavamo con una pila che non ci fosse il pericolosissimo serpente corallo o qualche scorpione velenoso. Di notte famiglie intere di pipistrelli ci volavano sulla faccia, così abbiamo dovuto fabbricare una specie di tenda, per isolarci da loro. Ma siccome era di plastica, ci svegliavamo all’alba, madidi di sudore. Naturalmente nelle mie lettere a mia madre trascuravo questi particolari avventurosi e pericolosi, per non spaventarla. Omissioni e qualche “bugia buona”, come le chiamo io, a fin di bene. Qualcuno mi ha chiesto: ma chi te lo ha fatto fare? Ero in ballo e dovevo ballare, non potevo certo tirarmi indietro, e poi c’era Alberto a proteggermi, da tutti i pericoli, le avversità, le insicurezze. Mi viene in mente la canzone di Battiato “La cura”.
Non potrò mai dimenticare il profumo della foresta, di fiori sfatti, di umidità, di terra grassa, del mare a pochi chilometri, e il chiasso degli uccelli che ci svegliavano all’alba, insieme al borbottio delle scimmie. E la gallina zoppa che al calar del sole Alberto spingeva con delicatezza sulla scala a pioli perché salisse  con le altre a dormire sull’albero di tamarindo. Immobile, a osservare la scena, se ne stava un’ iguana argentata. Sembrava un animale preistorico e sapiente.

E poi i Maestri.
Dionisio “el poeta”, che a Oaxaca declamava poesie struggenti sulla sua bambina che viveva in America. Mi ha fatto capire cosa sia l’amore per un figlio.
E Dona Carmen, la grande madre di tutti, che ci ha adottato per sette mesi, offrendoci la sua casa e la sua gentilezza amorevole. Mi ha insegnato la generosità.
E Angel, il vecchio hippy che viveva sulla spiaggia di Punta Hermosa, vendendo collane fatte di minuscole conchiglie e aveva gli occhi sempre rossi come un Bassethound . Mi ha insegnato la semplicità.
E ancora Lourdes, l’insegnante di Cuzco che per arrotondare faceva la taxista e  Tia Maria, la messicana che ci ha affittato le amache per dormire nella sua capanna sul mare e aveva non so quanti figli, due cani e un’iguana e un marito sempre ubriaco che ogni tanto prendeva a ceffoni. Mi hanno insegnato la forza.
E poi la signora Dina, che la sera, nella sua casa tutta di legno, ci preparava la tisana di basilico e ci faceva il pesce alla brace con i pomodori del suo orto ( così bizzarro in quell’angolo di foresta), nato da un progetto sperimentale dell’Università di S.Josè. Mi ha insegnato la gentilezza e la grazia della vecchiaia.

Anche la natura è stata mia maestra. La più rude a volte, ma anche la più compassionevole. Io che ai primi schizzi di pioggia uscivo con l’ombrello, ho imparato a stare sotto gli acquazzoni improvvisi e a farmi inzuppare dalle gocce tiepide, tutta, fino alle ossa, per poi magari arrotolarmi nelle lenzuola bianche di un hostal e mettere ad asciugare i miei vestiti fradici sulle sedie di paglia. Ho imparato a guadare il fiume che attraversava il campo in cui si trovava la nostra capanna, ben attenta a non scivolare, in equilibrio perfetto su un tronco, elegante come una ballerina. Ho scoperto quanto siano pestifere le zanzare dello Yucatan, tanto da dover andare perfino in bagno con lo zampirone in mano per non farmi massacrare. E quanto sia calda Vera Cruz nel mese di Maggio, da non poter respirare e dover fare una doccia ogni mezz’ora, senza neppure bisogno di asciugarsi perché l’acqua evaporava in pochi secondi.
E l’umidità della sierra, il verde tenero del mais, il verde cupo degli alberi, il verde polveroso dei cactus nel deserto del Messico, il verde dolce delle colline del Guatemala e dei campi di ananas dell’Honduras.
E ancora la spietatezza degli avvoltoi appollaiati sui bidoni ricolmi di spazzatura nel mercato di Tegucigalpa, con i bambini di due anni, nudi, a cercare cibo fra l’immondizia. Anche questa è natura. Crudele, ma pur sempre natura. E i pellicani dal becco invadente che pescavano a fior d’acqua a Punta Hermosa, i pappagalli variopinti e rumorosi che volavano al tramonto in stormi allegri davanti alla nostra casa di S.Josè e le rondini, a centinaia, impazzite di felicità, nel cielo di Chetumal… Sempre natura, meravigliosa natura.
Nell’ospedale di Cuzco, la città sulle Ande dove è nata la mia bambina, le infermiere meticce si preoccupavano perché non mi si attaccava al seno e quindi rischiavo di perdere il latte. Dopo aver tentato in tutti modi di aiutarmi, con un tiralatte e un intervento manuale piuttosto doloroso, la capo-sala mi propose timidamente l’ultima possibilità: allattare un altro bambino, magari più forte e più sveglio. Mi portarono un bambino indio che sembrava un torello, con il cappellino di lana tipico, che gli copriva le orecchie. Era bellissimo. Ricordo la meraviglia di quel contatto così intimo con un bambino che non era il mio, ma che ho subito amato. Inutile dire che il mio latte prese subito a sgorgare e così potei allattare mia figlia, fino ai 10 mesi. Anche questa è natura. Amica, sorella, madre. Ero la prima donna bianca che a Cuzco allattava un bambino indio. Spero che ce ne siano state ancora.
Ho vissuto la maternità in un contesto “forte”, non certamente asettico, circondata da infermiere, donne, che portavano in sé la “sapienza”, quella ancestrale, che fa del parto un avvenimento semplice, naturale e maestoso nello stesso tempo. Sono stata fortunata.
E poi i sapori, come li potrei dimenticare!  Il primo succo di mango e papaia a Città del Messico, il piccantissimo guacamole e i tacos, avvolti nelle foglie di mais, portati dalle indie sopra gli autobus in ceste rudimentali;  il riso al cocco con il pollo, mangiato a Puerto Barrios; il pollo alla Plaia Panamà, inventato da noi, con il vino, le cipolle e i peperoni, e il casado in Costa Rica, sempre lo stesso, riso, fagioli e banana fritta, tutti i giorni, che ti saziava e ti stupiva, come può un piatto così semplice essere tanto gustoso?  E ancora, il filetto che ci cucinava quella donna anziana sulla spiaggia di Punta Hermosa, con una salsa buonissima dagli ingredienti segreti. Lei ce lo serviva sospirando e guardando il mare nel quale erano annegati sua figlia e il suo unico nipote. Sapori e dolori che si intrecciano. In un’alchimia che commuove e che spiazza.
Ho pianto e riso tanto durante il mio viaggio. Di tristezza, di paura, di solitudine, di allegria, di felicità, di stupore. Pianto e riso a volte si confondevano. E anche questo è stato un insegnamento. L’impermanenza. Tutto cambia, di momento in momento. E’ così. E questo è il bello. Lasciare ogni attaccamento. Il viaggio ti costringe a farlo, a ogni tappa. Devi salutare amici che non rivedrai mai più e che sono stati la tua famiglia. Salutare cani, gatti, iguane anziane e sagge, galline zoppe e pappagalli che avevano imparato il tuo nome. Salutare case, alberghi, ristoranti, piazze, panchine. Salutare paesi in guerra dai quali devi scappare per non rischiare la vita, sapendo che quel giorno qualcuno  morirà, per stupidità e odio. Senza voltarti indietro. E con la gratitudine che ti gonfia il cuore.
Sull’aereo che ci portava a Panama per poi andare in Perù, ho pianto ininterrottamente. Non riuscivo a smettere. L’immagine di Dona Carmen e i suoi figli che, allineati sulla linea gialla, mi salutavano all’aeroporto, dopo sette mesi trascorsi insieme nella stessa casa, non riuscivo proprio a togliermela dagli occhi. E ancora oggi mi commuove.
Questo è stato il mio viaggio. Il più importante, a fare da muro maestro a quelli che sono venuti dopo e a quelli che verranno. Perché io continuerò a viaggiare e fra un viaggio e un altro continuerò a sentirmi una donna fortunata, che ha visto e conosciuto tanto, ma non si accontenta. E guarderò mappamondi,
atlanti  e cartine per capire, guidata da quel fremito sottile di curiosità e di voglia d’avventura che ormai riconosco, quale sarà la prossima meta a permettermi di allargare i confini della mia mente e del mio cuore.
Sì viaggiare…Con coraggio gentilmente… gentilmente… dolcemente viaggiare…… Lucio Battisti lo sapeva bene.
Il viaggio è stato bello. E lo sarà ancora…e ancora…e ancora…