mercoledì 23 settembre 2015

MI SONO PERSA GLI OCCHI: quattro poesie



I
Mi sono persa gli occhi
ho usato gli altri sensi
soprattutto l’anima che sale
sulle infinite rampe
a genuflettere i tramonti
e ho ascoltato brusii
fra le paludi
di vita che gracida e sussurra
e campane di molte chiese
bianche

carezze poche
ruvide di carta
in fogli accatastati
fra le righe

ho annusato dolore
in rancida alchimia
di chimica stravolta
ma anche viole del pensiero
e molte rose
quelle sfatte nell’orto
di un convento
rosso sacrocuore

ho succhiato pistilli
dolci come il miele
e masticato fili d’erba
al ronzio di un prato
che pungeva appena
di stecchi sulla schiena

le rondini erano punti
lontani in sospensione
i gabbiani virgole argentate
le nuvole cavalli
e draghi fra i soffioni

è stata un dono forse
la miopia
a rendermi curiosa
più degli altri
e a farmi riposare
gli occhi stanchi
in pozze di poesia. 


II
Svegliarsi
dopo anni
di sonno
frammentato
e giorno
confuso
con la notte
affacciarsi nuova
alla finestra
e accarezzare
gli alberi con gli occhi
fino a piegarne le cime
con un soffio

parentesi disfatta
incantesimo interrotto
la strega buia
si è dileguata
a un tocco semplice
di mano
e al suono di un mantra
di perdono

riprendere a sgranare le stagioni
in una conta soddisfatta
di giorni
che avanzano succosi
alla conquista di altri giorni

correre
flettendo sinuose le caviglie
arrendersi al giardino
e alle sue meraviglie
e al sole che riscalda
senza abbaglio
in pace
finalmente

fare le fusa
come un gatto.





III
Vorrei farmi specchio
ed eco gentile
rimandi
di luce benevola e calda
senza alludere al gelo
in agguato

aspettare
al tiepido di mani guantate
che il fiato rapprenda
e l’umido svapori
in gocce di nebbia
sulla sciarpa di lana infeltrita

e poi srotolare sorrisi
ai passanti
salutare cani  e vecchi
che camminano stanchi
facendomi carico
delle ossa loro
doloranti
in punta di spada appuntita

ma a volte il viso scolora
gli occhi intravedono ombre
e il grigio diventa tiranno
a ghignare malvagio
dura poco
poco più di un istante
diviso in montagne
soltanto un’inezia
e riprendersi dopo
e’ un tic di ciglia
sbattute due volte
il segnale
che riprende la festa. 





 IV
Mi espando
a  cielo aperto
circolo polare
e deserto
oceani e paludi
io farfalla o rondine
o spora
in abiti cangianti
a piedi nudi
vuoto d’ aria in piena luce
a domare le tempeste
fitta al petto d’allegria
bramosia di tutto un po’
soprattutto di magia.













domenica 20 settembre 2015

COME LA RUOTA DI UN PAVONE ( dalla raccolta "BAMBINE)

La bambina era stanca. Si raggomitolò nella poltrona, come un gatto. 
Era quasi notte.

La mamma era in cucina a preparare la cena. Il papà passeggiava nervosamente su e giù per il salotto, Cristina se ne stava seduta sul bordo del divano rosso.
“Fammi vedere come cammini” disse lui. Il suo sguardo era serio, molto serio.
Cristina incominciò a camminare.
Aveva una gonna a quadri verdi e turchesi, tenuta stretta in vita da una cintura di pelle con una grossa fibbia luccicante.

Dal giorno in cui Cristina era arrivata a casa dal paese per occuparsi di lei quando la mamma era in ufficio, l’aria era diventata pesante: silenzi, musi lunghi, la mamma e il papà che parlottavano di notte a letto fino a tardi. La mamma sembrava triste. E il papà sempre nervoso. Cristina non le piaceva per niente. Il pomeriggio non voleva mai giocare con lei, se ne stava ore davanti allo specchio a districarsi i capelli ricci e a mettersi il rossetto rosso scuro, e poi dava dei baci su un tovagliolo di carta finché non era pieno di impronte della sua bocca a cuore, vermiglia e minacciosa.


La gonna ondeggiava a ogni passo, si gonfiava. E mentre camminava, quasi come su una passerella, Cristina aveva un’espressione di sfida, strafottente.

Il papà era sempre più nervoso:
“Stai sculettando. Per quello gli uomini ti guardano. Li provochi.”

Non aveva mai visto sua madre camminare così. Sua madre correva sempre. Invece in quell’incedere altezzoso, sui tacchi sgangherati, c’era una calma minacciosa, una provocazione muta e lenta, quasi uno sfinimento: “Io piaccio agli uomini perché sono femmina, sono calda, appassionata. E piaccio anche a te che mi stai guardando bramoso. Ma io sono ancora minorenne, stai scherzando con il fuoco.” Quasi si sentivano questi pensieri. Facevano rumore, come un tuono in lontananza, senza lampi.


La mamma si affacciò un attimo dalla cucina. Era accaldata e spettinata, come sempre.
“La cena è quasi pronta.”
Il papà aveva appena spento una sigaretta e già ne stava accendendo un’altra.
“Ecco, i fianchi, non li muovere, non ce n’è bisogno, tienili fermi… almeno provaci, porca miseria!”

Cristina aveva la faccia da strega cattiva e lo sguardo trionfante.

E il papà aveva l’espressione di qualche sera prima, quando era successa quella cosa che lei non aveva detto alla mamma, per non intristirla ancora di più.
Lui era tornato a casa dall’ufficio, solo. La mamma era rimasta a fare un paio d’ore di straordinario. A un certo punto era mancata la luce. Pochi minuti appena. Cristina aveva cominciato a fare quelle risatine che tanto la infastidivano. La mamma non rideva mai così. Se rideva faceva delle belle risate fragorose, con la a, ma ultimamente non succedeva molto spesso. Invece Cristina ridacchiava con la i, fastidiosa. Sembrava un topo che squittisce. Quando era tornata la luce Cristina se ne stava seduta sulle ginocchia del papà.
Quasi quasi cadevo! Menomale che c’era lui a salvarmi!” aveva ridacchiato. Bugiarda.
Lui sembrava imbarazzato e aveva sulla faccia un’espressione stupida che non gli aveva mai visto prima.
Ecco, adesso, mentre guardava Cristina camminare, ancheggiando per la stanza, il papà aveva di nuovo quell’espressione. Ma c’era un particolare che non aveva mai notato prima. Le scarpe di camoscio di Cristina, beige, con i tacchi a spillo che si stavano storcendo, erano così scollate da scoprire l’attaccatura delle dita, tutte e cinque ben allineate, come soldatini. Il mignolo si vedeva quasi tutto. Era brutto, leggermente accavallato, era volgare. Come quelle labbra a cuore sul tovagliolo di carta. Stessa sensazione.

“Così va meglio. Vedi che quando vuoi ci riesci?” Il papà sembrava sollevato.

Si era fatto buio.
“E’ pronto, venite a tavola!” gridò la mamma dalla cucina.
Il papà prese Cristina per un gomito, con un gesto di possesso.
“Vedrai, riuscirò a insegnarti a camminare come si deve.” le disse piano.
Quando la bambina le passò vicino, la gonna di Cristina ondeggiò lievemente e si gonfiò.
Verde e turchese.
Come la ruota di un pavone.

lunedì 14 settembre 2015

HO SOGNATO FORTEZZE ( 3 Poesie)



I
Ho sognato fortezze
la pietra era calda
l’orizzonte bruciato di sale
infinita la luce che spazia

pausa ristoro del sonno
le mie plurime vite
a intrecciarsi con quelle di altri
di molteplici razze
fratelli abbracciati
amanti gentili
bambini neonati
che mi entrano in tasca
valli che sorvolo al galoppo
di ali
donne vecchie ed esperte
sciamane e madrine
a sciogliermi i voti
e a rivelarmi segreti
in lingue scavate dal fiato

ma sono incubi a volte
di pozzi di vetro
caverne bagnate
donne impazzite
onde che mi inseguono
a vista
di un mare nemico
e scoppi di bombe
in raffiche amare

al mattino riverbera
il sogno
in squarci appena svelati
rimandi
profumi
e tremito ai polsi
come dopo
una notte d’amore

ho imparato parole
ho sciolto i capelli
ho volato sui fiumi
ho scavato con dita sapienti
pepite grasse di oro
e la giornata
è più chiara e più lieve
se solo mi ascolto
se solo mi lascio
sfiorare dal soffio.



 II
In quello stato
occhi chiusi
mani sulle cosce
schiena eretta
sorriso
mi riprendo il fiato
mi apposto comoda
a osservare quello che succede
senza giudicare
pensieri che passeggiano
colori a stella
tremiti
brividi
lacrime che si affacciano
tenerezza
dolore cupo
paura
euforia
ma la mente non mi porta via
se l’ascolto
poi si placa
si pacifica nel vuoto
finalmente si riposa
e io osservo questo andare
lento e svelto
che mi nutre e mi consola
non sono sola
io ci sono
pura e pallida di luna
sono io la mia fortuna
sono io la mia rovina
sono io la mia allegria.


III
 Da dove vengo non lo so
ho dimenticato meridiani e paralleli
solo un punto infinitamente piccolo
senza senso apparente
un nucleo di spessore
che si è fatto memoria
pulsa richiamandomi all’attenti
a ogni cambio di stagione

evitare le feste comandate
ricordano tragedie
ferragosto è al confine del dolore
Pasqua è la più innocua
ma attenzione al Capodanno
potrebbero aprirsi voragini

si salva un’unica data
faceva freddo sulle Ande
ma era estate
la notte delle stelle
e una
la più bella
è caduta sulla terra
per insegnarmi
a camminare.




















mercoledì 9 settembre 2015

AZZURRO NOTTE (dalla raccolta "BAMBINE")



In quella stanza di quella casa, che era una vera casa, con dentro una vera famiglia, lei si svegliò con un acuto mal di denti. Le avevano sistemato una  brandina ai piedi del letto dei Cacciapuoti. Guido dormiva su un materasso per terra. Lo dovette scavalcare, piano, per andare in bagno. La lampadina era molto fioca. Salì su uno sgabello e si mise a bocca spalancata davanti allo specchio. Non riusciva a vedere quasi niente, solo una piccola macchia scura al posto del premolare. Il dolore era aumentato. Ora era pulsante. La guancia era leggermente gonfia. Il pendolo fece due rintocchi. Dalla stanza da letto sentiva il respiro tranquillo della Signora Mara mentre il marito russava a ondate intermittenti, intervallate da sibili e fischi. Non sapeva che fare. Andò in salotto e si sedette su una poltrona, coprendosi con un vecchio plaid scozzese con le frange. Avrebbe voluto dormire ma il dolore era troppo forte. Si mise a guardare le mattonelle di graniglia. Erano tirate a lucido, con delle greche marroni che formavano una stella al centro della stanza. Una pianta di ficus dalle foglie carnose e lustre riempiva quasi tutta la veranda. Da lì si scendeva nell’orto-giardino. Sulla credenza c’erano foto di famiglia: le quattro ragazze durante una gita in montagna, la prima comunione di Guido, il Signor Giacomo e la Signora Mara in viaggio di nozze a Venezia, su una gondola... A casa sua non c’erano foto e neppure una credenza. Solo le cose più essenziali. Ogni volta che facevano un trasloco lasciavano qualcosa. “Tanto poi lo ricompriamo”. Ma non era vero. E così avevano una casa spoglia. Le reti, i materassi, un tavolo con delle sedie, al posto del divano una branda con un copriletto a fiori. Basta. Né quadri, né cuscini, né piante.
Il giorno prima c’era un sole splendido e lei e Guido avevano giocato a nascondino, vinceva sempre lui perché conosceva tutti i nascondigli, ma lei era contenta lo stesso. Guido era alto e smilzo, con le ginocchia ossute e una folta peluria sul labbro superiore. Le sue quattro sorelle erano bionde e frequentavano il  ginnasio e le magistrali. Avevano tutte un nome che iniziava con Maria: Maria Rosa, Maria Assunta, Maria Chiara, Maria Sole. La Signora Mara aveva fatto un voto alla Madonna perché non riusciva ad avere bambini. E aveva funzionato perché una dopo l’altra aveva sfornato le quattro bambine. Guido era nato dopo tanti anni. Adesso faceva la III elementare, come lei, ma sembrava più grande. La Signora Mara portava una treccia grigia arrotolata intorno alla testa, suo marito aveva i capelli tutti bianchi e dei baffoni argentati. Sembravano due vecchi e le facevano un po’ di soggezione, anche se erano molto affettuosi. Ma adesso lei era lì per le vacanze di Pasqua e i suoi sarebbero venuti per il pranzo della Domenica. Dovevano lavorare tutta la settimana, le scuole erano chiuse e i Signori Cacciapuoti erano così gentili, “ ti va vero di passare qualche giorno con Guido e le ragazze, vi divertirete un mondo”. E infatti si stava divertendo parecchio, era persino andata ad assistere a un saggio di musica dove Guido cantava, non pareva neanche lui, aveva un papillon rosso e con il microfono in mano sembrava più grande e disinvolto. Forse perché le sue ginocchia ossute erano nascoste dai pantaloni lunghi, forse perché si era pettinato con il gel, insomma non era poi così male. Dopo il saggio avevano mangiato dei pasticcini e bevuto l’aranciata e a un certo punto Guido l’aveva presa per mano e l’aveva portata in cortile a vedere una gatta che aveva appena partorito sei gattini: erano umidi e tremanti, con gli occhi chiusi, e delle code striminzite, sembravano dei topi. Era stato lì, mentre lei ne accarezzava uno, che lui le aveva dato un bacio sulla guancia. Poi aveva sorriso scoprendo i suoi incisivi frastagliati e lei si era sentita contenta.
Si rese conto di essersi addormentata per qualche minuto, forse mezz’ora. Il dolore era diventato quasi familiare, le teneva compagnia. Solo a tratti pungeva e lei doveva mettersi la mano sulla guancia per darsi un po’ di calore e avere un’apparenza di sollievo. Si mise a pensare alla camicetta che le aveva regalato Maria Sole, la più piccola delle sorelle: aveva le maniche a sbuffo e dei ricami davanti a punto croce. L’avrebbe potuta mettere il giorno di Pasqua con la gonna a pieghe blu e le scarpe bianche con i calzini di pizzo. Il cappellino di paglia quello no, lo detestava, glielo aveva regalato la nonna, ma lei se l’era messo solo una volta, per educazione e per non offenderla. Ma stavolta  lo avrebbe lasciato in fondo alla valigia.
Guido si mise a parlare nel sonno, poche parole, senza senso, mentre il Sig. Cacciapuoti russava sempre più forte. Le giornate si erano allungate, adesso il sole sorgeva prima. Dai vetri della veranda si intravedeva un chiarore nitido e rosato. Anche gli odori erano cambiati: dal giardino stava salendo un profumo di macchia e di lavanda, misto a quello delle rose. Era aprile inoltrato e stavano già sbocciando. Quando torno a casa voglio piantare qualche fiore sul balcone, pensò. La mamma non ha tempo, li innaffierò io tutti i giorni e li concimerò e ci metterò dentro i fondi di caffè come ho visto fare alla Signora Mara che ha tutte queste piante belle rigogliose, le spolvera pure, foglia per foglia, ci parla, le accarezza, le guarda con amore. La mamma dice che le piante sono belle ma poi muoiono e lei non sopporta le cose che muoiono, sporcano, fanno sudicio, bisogna raccogliere le foglie secche, vengono le formiche o addirittura gli scarafaggi, a lei  piacciono solo le stelle alpine, quelle tutte pelose, ma stanno solo in montagna e a dire la verità un po’ mi sembra una scusa. Le piante sono belle, mi fanno allegria, le foglioline appena nate sono come quei gattini, umide e appiccicose… Pensò anche che la mamma non amava i gatti e nemmeno i cani, anzi dei cani aveva proprio terrore, perché una volta, quando era piccola, un lupo le si era avventato addosso ed era rimasta due giorni senza parlare per lo spavento. I Cacciapuoti avevano un vecchio cane che si chiamava Ulisse, lo tenevano nell’orto, aveva una cuccia di legno e abbaiava da cane vecchio e stanco e tutti i giorni mangiava un pastone dal profumo buono, non sembrava una pappa per cani, dentro la Signora Mara e Maria Chiara, che da grande voleva fare la veterinaria, ci mettevano un misto di verdure, riso e ali di pollo, disossate, per non fargli andare gli ossicini di traverso. Ulisse aveva un pelo corto e ispido color miele e delle orecchie morbide che gli davano l’espressione mansueta. Ringhiava solo al postino, ma non faceva male a una mosca, sì le piaceva Ulisse, le piaceva proprio…

Si aggiustò meglio nella poltrona, il dolore era diventato un’ombra silenziosa e inoffensiva,  adesso mi alzo e mi rimetto a letto, pensò, ma ho paura di svegliare tutti, forse è meglio se resto qui, questa vecchia poltrona di pelle è morbida, chissà, forse posso fare un riposino, domani Guido mi porta alla miniera abbandonata, ha detto che mi deve far vedere delle pepite d’oro, una volta di oro ce n’era tantissimo poi la vena si è esaurita, non sono mai stata in una miniera, è nella pancia della terra, deve essere umida e buia, ma non ho paura, Guido mi prenderà per mano e giocheremo al vero nascondino, che bello, non voglio che finiscano le vacanze, questa casa mi piace, siamo in tanti e tutti fanno sempre qualcosa, chi canta, chi cucina, chi gioca a scacchi, chi cuce, domani mi metto i pantaloni, quelli scuri, così se li sporco non si vede, domani voglio rivedere i gattini, chissà se la mamma me ne fa portare uno a casa, no, già lo so, è meglio se non glielo chiedo, domani se mi passa questo mal di denti mi voglio proprio divertire…