lunedì 11 dicembre 2017

L'ARTE DELLE DONNE ( dedicato alle mie amiche artiste)




C’è che l’Arte delle donne mi commuove.
"La sedia di Gomez" acquerello di Germana Galdi
Mi fa vibrare, mi coinvolge, mi appassiona. Perché so cosa c’è dietro: lo sforzo supplementare, la fatica, il desiderio. E quanti ostacoli e ostruzionismi deve superare, spesso proprio da parte di chi ci vuole bene e a volte per proteggerci ed evitarci delusioni, questa è l’apparente giustificazione, ci dice frasi del tipo: “Con  la poesia, la pittura, la scultura, la fotografia, la musica, il canto ecc. ecc. non si vive. Meglio un lavoro fisso...di questi tempi.” E noi nel frattempo, e spesso a malincuore, il lavoro che abbiamo, fisso o meno, ce lo teniamo. Ma proprio non riusciamo a considerare la nostra Arte un hobby, un passatempo. No, non ce la facciamo. E’ carne e sangue, gioia e dolore, frustrazione e soddisfazione. E fatica, tanta. E a volte una sensazione di vuoto e di solitudine. Vorremmo poter parlare delle nostre intuizioni, delle nostre conquiste, dei nostri progressi, dei nostri apparenti momenti sterili, con qualcuno che ci sostenga e ci capisca. E ci dica, quando ci va bene, che è felice per noi, e quando invece siamo a un punto morto, di andare avanti, e ce lo dica a parole o magari solo con un abbraccio. Perchè l’Arte è una pianticella che ha radici profonde, nei nostri talenti, nella nostra volontà, nella nostra disciplina, ma va nutrita, con parole gentili, sorrisi, carezze, regali. Per questo è importante che le artiste si sostengano a vicenda.
"Lisa says" di Giovanna Noia
E gioiscano ognuna del successo dell’altra. Con generosità, sorellanza, sollecitudine, cura.  In uno scambio proficuo di suggerimenti, informazioni, incoraggiamenti. Che vada a creare una rete di sostegno, molto elastica e forte, che non ci farà precipitare quando cadremo giù, per qualunque motivo. E nel frattempo l’Arte, che è dentro di noi, sempre, quando lavoriamo, quando cuciniamo, quando accudiamo i nostri bambini, se ne abbiamo, si sentirà protetta, al riparo, compresa, mai minimizzata da parole maldestre, dette con superficialità da chi non riesce proprio a capirci. Noi di questo abbiamo bisogno. Di comprensione. Di rispetto.  E di delicatezza. Le artiste sono fatte di un materiale delicato e prezioso. Da maneggiare con cura. Una parola disattenta potrebbe fare danni. E quindi Germana, Giovanna, Paola, Antonella, Maria 1, Silvia, Iole, Gianna, Ornella, Alessandra, Stefania, Teresa, Eleonora, Cecilia, Camilla, Maria 2, Raffaella, Lelia, Francesca e tutte le altre, non siamo sole! E siamo tante. Ogni tanto facciamo un fischio, di quelli che perforano i timpani, chiamiamoci a raccolta, e non temiamo di tirare fuori la nostra voce, che unita a quella delle nostre amiche, diventerà ancora più vibrante e più potente per dire: io sono un’artista, io sono qui, ci sono.

mercoledì 29 novembre 2017

LA POESIA HA BISOGNO DI AMICI



La poesia ha bisogno di amici. L’amicizia è il nutrimento che la fa fiorire. Altrimenti resterebbe una terra secca e sterile che produce fiori e frutti senza forza, destinati subito ad appassire, a marcire.


Per anni ho scritto poesie in solitudine. Le leggevo e rileggevo, senza trovare il coraggio di condividerle e di espormi, anche ad eventuali critiche. E le mie poesie restavano lì, in fogli accatastati, come foglie secche, senza linfa. Un campionario di cose morte.

Poi, proprio 10 anni fa Lena, la mia amica svedese,  mi ha proposto di leggere le mie poesie a un gruppo di amiche che facevano parte della FIDAPA. Una cosa semplice, mi aveva promesso, senza nessuna cerimonia. Avevo preparato alcune poesie, poche, e le avevo messe in una cartellina, accanto a qualche racconto autobiografico. Quella sera, ricordo, ero appena uscita dal lavoro e non avevo avuto il tempo di cambiarmi. Indossavo un paio di jeans e una maglia. Ed ero, come al solito spettinata. Ho trovato, nella sala ricevimenti di un noto ristorante sul mare, una folla di persone eleganti che mi stava aspettando, e un ricco buffet. Io non avevo mai parlato a un pubblico così vasto e tanto meno letto le mie poesie. Ero quasi paralizzata. E anche un po’ arrabbiata con la mia amica, che mi aveva teso quel trabocchetto, a fin di bene. Mi aveva stanata. Mi aveva costretta a rivelarmi, a tirare fuori la voce, a espormi. E continuava a sorridermi e a dirmi vedrai, andrà tutto bene.  Ed è avvenuto un piccolo miracolo. Ho iniziato a leggere le mie poesie. E poi i racconti. Mai avevo sentito nella mia vita un silenzio e un’attenzione  così densi, così vibranti, così intensi. Avevo chiesto di non applaudire fra una poesia e l’altra, per non rompere quell’incanto. E mentre leggevo, mi sentivo quasi fuori dal corpo. Emozionata ma presente, emozionata ma anche temeraria, emozionata ma anche curiosa. Sarei riuscita ad arrivare al cuore di tutte quelle persone venute lì apposta per sentire le poesie di una sconosciuta, che ancora nessuno osava definire una poetessa? Gli applausi alla fine, le strette di mano, gli occhi lucidi, i ringraziamenti, la commozione che si sentiva, palpabile, sono stati la risposta. E grazie a Lena, che mi aveva presa per mano, e mi aveva tranquillizzata con il suo sguardo azzurro e benevolo, da quel giorno non mi sono più fermata. Tre anni dopo ho pubblicato il mio primo libro di poesie “Ofelia non c’è più”.
E a sostenermi, incoraggiarmi e presentarmi, nell’Aula Magna del Liceo, gremita di gente, soprattutto giovani, questa volta c’era un amico, Armando Cittarelli, anche lui Poeta. Che con le sue domande, a volte provocatorie, ma sempre tese a capire, ad approfondire, mi ha costretta ad andare ancora più in profondità e a svelarmi. Perchè questo fa la poesia, ci svela agli altri e a noi stessi, riesce in anticipo a cogliere emozioni, suggestioni, rivelazioni, che una volta portate alla luce, ci cambiano per sempre, rendendoci più autentici e più forti. E nel corso degli anni io e Armando ci siamo incontrati, abbiamo parlato di poesia, ci siamo scambiati i nostri versi, ci siamo incoraggiati vicendevolmente, sentendoci forse meno soli. E a chi avrei potuto chiedere di scrivere la prefazione del mio nuovo libro “La memoria dell’acqua” se non a lui? A lui e a un altro amico Poeta, Vincenzo Loriga, novantasettenne pieno di vita e di creatività, che ogni tanto vado a trovare a Roma nella casa sui tetti dove vive con la sua compagna Paola Mazzetti e la sua gemella Lorenza.Una casa di giovani artisti, senza età. Perché questo fa l’arte. Ci mantiene giovani, vibranti, curiosi, appassionati e un po’ incoscienti forse. Senza troppa paura del tempo che passa.
E quindi il mio nuovo libro ha due prefazioni, di due poeti che amo e che generosamente mi hanno sostenuta.
Ma non posso certo dimenticare gli autori delle illustrazioni delle copertine dei miei libri. Anche loro miei amici: Il pittore Giuseppe Modica con “La stanza del marinaio” che tanto bene rappresenta la malìa del viaggio, dentro e fuori di sé. E la pittrice Germana Galdi con “Chili y chocolate” a ricordare il dolce-piccante, a volte amaro, dell’avventura e della vita.



Un ringraziamento va anche alle amiche e agli amici, che mi hanno ascoltata leggere i miei versi a cene, compleanni e presentazioni. E a Annamaria e Marco, Marta, Maria Nella e Anna che mi hanno presentata in alcune occasioni. Ringrazio tutti per l'attenzione, la pazienza, la partecipazione, l'affetto. 

E ringrazio la comunità di scrittori di LIBERODISCRIVERE che attraverso un proficuo laboratorio di scrittura mi ha spronata a scrivere, a confrontarmi, a leggere ed ascoltare altre voci. Grazie ad Anna Fabiano, a Silvia, a Maria, a Iole, a Pierpaolo che, come un fratello, mi ha accolta  nella sua  Sardegna  e ha scritto la prefazione al mio primo libro di poesie. E grazie a quegli anni così fertili e così generosi.

E infine ringrazio mia figlia Olivia perchè la poesia è sempre stata un potente strumento di comunicazione e di vicinanza fra noi. E io mi commuovo nel vederla ogni volta commuoversi. E la ringrazio perchè il mio amore per lei e la nostra piccola famiglia hanno ispirato molte delle mie poesie.

Ma se vado a ritroso non posso non ringraziare chi non c’è più: mio nonno Aldo che ha sempre scritto poesie, e me le regalava mettendomele sotto il piatto; mio padre che leggeva ai suoi amici le mie prime poesie e filastrocche, orgoglioso come solo un padre può esserlo; mia madre che amava la musica e mi ha fatto amare la lettura. E io mi incantavo al suono della sua voce.

La voce di mia madre per me era Poesia.

domenica 19 novembre 2017

LA MEMORIA DELL'ACQUA (Il mio nuovo libro di poesie)




Scrivere per esprimersi, per consolarsi, per condividere, per lasciare tracce, per perdonare, per perdonarsi, per ricordare, per lasciare andare, per fare ordine, per dare un senso, per trovare la voce, per dare voce, per gridare, per sussurrare, per salvare, per salvarsi, per svelarsi, per fare spazio, per onorare, per ringraziare, per ispirarsi, per denunciare, per dichiarare, per sperimentare, per raccontare, per pacificare, per liberare, per liberarsi, per accogliere, per vivere.


E’ uscita la mia raccolta di poesie dal titolo “La memoria dell’acqua”, pubblicata dalla casa Editrice Robin e distribuita dalle Messaggerie Libri, a sette anni dalla raccolta “ Ofelia non c’è più”, pubblicata dall’ Editore Lietocolle. Fra un libro e l’altro sono successe tante cose e scrivere è diventato per me sempre più un bisogno primario, è parte del mio nutrimento, della mia sussistenza, della mia vita quotidiana. Il libro è corposo, più di 100 poesie, perchè questi anni sono stati intensi, intensi e dolorosi, con sprazzi di felicità e momenti di gioia. “La vita così com’è, nel suo doloroso splendore”, come è scritto nella quarta di copertina. E ho fatto la scelta, a differenza del libro precedente, composto solo da 36 poesie, di organizzare la raccolta in sezioni, quasi fossero delle opere a sé. Ma a ben guardare, fra una sezione e l’altra ci sono rimandi, richiami, in un flusso a mio parere coerente, che mi racconta, senza etichettarmi, ma rivelando l’impermanenza e lo scorrere delle emozioni e degli avvenimenti. Una scrittura poetica autobiografica? In parte lo è, certamente, ma non vorrei che l’aspetto autobiografico diventasse una gabbia. Tutt’al più la trama leggera, la traccia, il filo conduttore che permette alla poesia di farsi spazio, soprattutto nelle azioni minute, nei ricordi nudi, nelle suggestioni. La sezione “Il posto fisso” è quella, a mio avviso, più asciutta, senza fronzoli. La realtà di un lavoro ormai non più amato, spiazzante, noiosa, a volte intrisa di dolore, alla ricerca di un senso che spesso si fa  fatica a trovare. Eppure all’interno di quella realtà, con sguardo attento si possono trovare spunti di tenerezza, di amicizia, di benevolenza, piccoli semi di gioia da proteggere con delicatezza, per farli magari fiorire in ambienti meno aspri e più favorevoli.

Pubblicare un libro è sempre una gioia. Tenerlo fra le mani, sfogliarlo, guardarlo con amore. A partire dalla bellissima copertina, opera della pittrice Germana Galdi,  che secondo me, nella minuziosa e vibrante luminosità del suo acquerello dal titolo “Chili y chocolate” esprime a meraviglia l’intento della mia poesia. La vita, così com’è, nel suo semplice, doloroso e luminoso splendore. E spero che i lettori possano trovare all’interno del mio libro appena nato almeno un po’ di quella luce.

domenica 22 ottobre 2017

EL POETA (A Dionisio Hernandez Ramos)









Succede, dopo trentacinque anni, di risentire quella poesia, che nel frattempo è diventata famosa, come il suo autore. 1981: un lungo viaggio durato un anno  e mezzo fra America Centrale e Perù. Un viaggio che non potrò mai dimenticare perché quando sono tornata non ero più la stessa. I primi due mesi li abbiamo trascorsi in Messico. E venti giorni a Oaxaca, una bella città coloniale a 1500 metri di altezza, con un clima mite, ventilato e asciutto. Stavo imparando la lingua e tutti  i giorni leggevo nella piazza principale, seduta a un tavolino del bar, un quotidiano che si chiamava “uno mas uno”. A pranzo andavamo, io e il mio compagno,  a mangiare un ottimo filetto alla tampiquena con guacamole, una gustosa salsa di avocado. La vita scorreva serena. Il nostro albergo si chiamava Hotel Principal. Era di stile coloniale, con le stanze che davano su un grande patio. I vicini di stanza erano un padre e una figlia italiani. Lui faceva il pittore e si era trasferito a vivere in Messico. la figlia aveva 18 anni ed era andata ad assisterlo perchè era stato morso da un cane e la ferita non si rimarginava. Lei si chiamava Olivia, era piccola e scura di carnagione e il primo giorno, visto che parlava un castigliano fluente, l’avevo scambiata per una messicana. Nell’altra stanza c’era lui, “el poeta”, un piccolo indio zapoteco, dalla faccia incredibilmente rugosa, che subito fece amicizia con il mio compagno. La sera se ne stavano nel patio a bere una birra dietro l’altra, mentre io chiacchieravo con Olivia, che stava imparando a tessere della lana bianca con un rudimentale telaio che teneva con i piedi, sperando di fare dei tappeti che poi avrebbe venduto ai gringos. Il cielo al tramonto diventava di un rosso porpora che poi sfumava nel viola. Erano momenti magici che meritavano il silenzio. Infatti per qualche minuto nel patio tutti tacevano, per non disturbare quello spettacolo di assoluta perfezione, per poi riprendere a parlare quando il cielo diventava blu cobalto.


Una sera arrivò una turista francese che abitava a N.York e aveva un negozio d’arte. Il giorno dopo andammo tutti in un villaggio dalle strade di terra battuta a trovare Teodora, un’anziana india che ancora faceva delle ceramiche di terracotta nera secondo un’antica tradizione azteca. Arlette, così si chiamava la francese, ne ordinò un grosso quantitativo, a un costo irrisorio, per poi rivendere i vari pezzi  nel suo elegante negozio a Manhattan a un prezzo centuplicato. Al ritorno Dionisio, el poeta, ci invitò  a bere qualcosa in un locale che avevano aperto da poco e si chiamava “El sol y la luna”. Era una serata tiepida. Nel giardino interno, profumato di fiori tropicali, avevano sistemato dei tavoli e delle panche per noi che volevamo stare per conto nostro all’aperto. Dionisio quella sera bevve parecchio e a un certo punto, come un saltimbanco si mise in piedi su un tavolo e incominciò a declamare le sue poesie. Mi ricordava il vecchio Ungaretti quando leggeva i brani dell’Odissea, per la mimica e le innumerevoli rughe. Eppure Dionisio non era vecchio, avrà avuto una quarantina d’anni, ma il suo volto, scolpito e intenso, sembrava il tronco di una vecchia quercia. Io ancora non capivo tutte le parole, ricordo solo che in quelle poesie, intense e sofferte, l’anima di Dionisio emergeva luminosa e chiara e lui si trasfigurava, fin quasi a diventare bello. Fra tutte le sue poesie, una mi aveva particolarmente colpita. Parlava della sua bambina, nata da una relazione con una turista americana, che ora viveva con la madre a Miami e lui poteva vedere solo una volta l’anno. Ricordavo più o meno il senso. Diceva che tutti i giorni della settimana erano vuoti e senza senso e solo uno risplendeva, perchè in quel giorno era nata lei. Ecco, in tutti questi anni ho pensato spesso a quei giorni, a Olivia ( a mia figlia ho dato il suo nome) e a "el poeta". Le parole di quella poesia in qualche modo avevano lasciato in me una traccia luminosa. Finché oggi l’ho trovata su internet, anzi ho trovato proprio lui “el poeta” che nel frattempo è diventato famoso, mentre declama proprio quella poesia. Lui è vecchio vecchio e la sua voce trema. La sua poesia, quella poesia è intitolata “ Viernes”. E lui, el poeta è Dionisio Hernandez Ramos. Ascoltandolo non ho potuto fare a meno di commuovermi  e di pensare che certi incontri sono veramente meravigliosi, se non li lasciamo andare. Dionisio  se n'è andato il 3 agosto di quest'anno. Anche questo l'ho scoperto oggi. Ecco  "Viernes"                         
 
Me gustan los viernes

porque la vida de la semana

agoniza en esas horas

y expira con frenesí

de poseso alcohólico

Y también

porque naciste tú

en viernes

sin sol

con cielo gris

triste

No me gustan los sábados

domingos    lunes    martes

miércoles o jueves 

porque nada pasa
 ni naciste tú


 

mercoledì 13 settembre 2017

LA POESIA DELLA SEMPLICITA':WALK WITH ME



93 minuti intensi, girati col cuore e la volontà di capire. Questo traspare, a mio avviso, dalla visione di questo film http://www.mymovies.it/film/2017/walk-with-me-il-potere-del-mindfulness/su Thich Nath Hanh e la comunità monastica che vive con lui a Plum Village, il monastero fondato negli anni ’80, in seguito all’esilio dal Vietnam di questo monaco poeta, che tanto si è impegnato per la pace da essere proposto da Martin Luter King per il Premio Nobel. Il film documentario è il risultato di 3 anni di incontri a Plum Village.  I registi  seguono poi i monaci e Tich Nhat Hanh in un viaggio on the road in USA  e nelle visite che i monaci fanno saltuariamente alle proprie famiglie. Immagini di vita quotidiana all’interno del monastero, semplici, essenziali, sincere: cerimonie, rituali, sessioni di meditazione. E lo scorrere delle stagioni con una natura incontaminata e splendida intorno al monastero, la semplice allegria e giocosità di monaci e monache, la loro umanità, senza maschere (a volte mi annoio a fare le stesse cose, dice una giovane monaca addetta alla cucina, un monaco sbadiglia e si stropiccia gli occhi durante la meditazione del mattino). Persone come noi, che hanno scelto questo cammino, di pratica della presenza mentale. Rasarsi al mattino, bere una tazza di the, stare al computer facendo una traduzione, cercando le parole giuste, proprio quelle e non altre: azioni semplici e solenni perché fatte con cura, attenzione e consapevolezza, anche quelle più banali. E tutto diventa quindi un’occasione di pratica, tutto: mangiare in silenzio, camminare lentamente sotto la pioggia, sistemare i cuscini per la meditazione, giocare  su un carrello con le ruote.  E lui, l’anziano Maestro, umile e maestoso nella sua semplicità che diventa bellezza. Sorride con quei suoi denti radi, come chicchi di riso, un sorriso infantile, puro, e all’aeroporto osserva un pupazzo di peluche che si rotola e ride. Attento e incantato come un bambino. E poi gli incontri nelle carceri: ma voi fate sesso? Domande provocatorie al monaco americano che non si scompone e dice di essere felice così, senza soldi, senza auto, senza una casa propria, senza oggetti che non siano quelli della semplice sussistenza. L’incontro dei monaci con le proprie famiglie è  straordinariamente intenso. Gli abbracci, la gioia del ritrovarsi e di guardare un album di foto. E quella di veder piangere per la felicità un anziano padre in ospizio e di rassicurarlo dicendogli: respira, questa è gioia, riconoscila, calma il respiro, io sono qui per te. Poesia. E alla bambina che dice a Tich Nath Han di soffrire per la morte del suo cagnolino, lui con semplicità, parlandole della nuvola che si trasforma in pioggia e del the che le contiene entrambe, riesce a farle una lezione sull’impermanenza e la bambina cambia espressione, si sente finalmente rassicurata e pacificata. Tutto questo intervallato da immagini di straordinaria bellezza, albe, tramonti, campi di girasoli, stormi di uccelli, di una natura pulsante e maestosa, e la voce del Premio Oscar Benedict Cumberbatch che legge brani da un diario di Thich Nath Hanh degli anni ’60.
Senza mai cadere nella retorica o nella celebrazione. Non è un film che voglia dimostrare qualcosa (il Buddismo aiuta a stare meglio, calma la mente ecc), ma che semplicemente prova a mostrarci un modo di vivere che, se lo vogliamo, possiamo imparare anche noi, tutti, qualunque sia la nostra religione, tornando all’attimo presente, che è l’unico che abbiamo a disposizione (il passato non esiste più e il futuro non ancora...). Dovremmo solo avere la pazienza e la cura ogni tanto di fermarci e di riconoscere quello che sta accadendo in questo preciso momento e renderci conto che la vita scorre dentro di noi, adesso e, se siamo presenti, può rivelarci le sue infinite meraviglie.

mercoledì 2 agosto 2017

LETTERA DAL COSTA RICA



La gioia di scrivere e ricevere lettere....  

Dall'Epistolario "Il viaggio è stato bello" finalista al Premio Pieve 2007 dell'Archivio dei Diari di Pieve S. Stefano.




S.Josè,  Costa Rica, 4 settembre 1981

Cara mamma,

eccoci qui in Costa Rica. Siamo arrivati da 8 giorni e già ci siamo sistemati per bene. Ma andiamo per gradi perché ho veramente tante cose da raccontarti e non voglio fare confusione. L’ultima lettera te l’ho scritta dall’isola in Honduras e te l’ho spedita da Tegucigalpa. L’hai ricevuta? Stando sull’isola non potevamo capire il vero spirito dell’Honduras, perché come ti ho detto è abitata da inglesi discendenti dei corsari, ed era quindi un’isola nel vero senso della parola. Invece a Tegucigalpa, dove siamo restati 4 giorni, siamo rimasti scioccati dalla miseria nera della gente, dal numero impressionante di persone, bambini compresi, che dormono sui marciapiedi, dalle centinaia di storpi, paralitici, ciechi, persone deformi, che vanno in giro a chiedere l’elemosina. Pensa l’Honduras ha un reddito medio pro-capite annuo di 100 dollari. Quindi puoi immaginare come vivono. Ma no, non si può immaginare se non si vede. Un po’ come Calcutta o Bombay, ma senza quella spiritualità, solo dolore. Al mercato, appollaiati su enormi bidoni della spazzatura, ho visto due avvoltoi, quelli con una specie di collare rosso alla base del collo. Orribili E tanti bambini  rovistare fra la spazzatura, nudi. Eppure sarebbe una terra ricca e fertile. Ci sono distese e distese di piantagioni (banane, ananas, caffè) ma tutto è nelle mani della Standard Fruit Company, che è una compagnia americana. Dormivamo in un albergo che era un mezzo casino, nel senso di bordello, e una notte abbiamo sentito (c’era solo una parete di compensato come divisorio) un uomo che faceva l’amore (si fa per dire!) con una prostituta bambina e la riempiva di botte e di cinghiate. Terribile.

Siamo partiti per il Nicaragua. Non ti dico che controlli alla frontiera. Tre ore. Ci hanno chiesto di fargli vedere i dollari che avevamo, se no non ci lasciavano passare. Siamo rimasti due giorni a Managua. La città, fra il terremoto del ’72 e i mitragliamenti di Somoza, quasi non esiste più, solo grandi distese d’erba, qualche palazzo semi-diroccato e qua e là le case che sono rimaste in piedi (è rimasta intatta in Plaza Sandino solo una vasca di pietra con dei piccoli coccodrilli ). Ma lavorano tutti come formiche per ricostruirla e c’è nell’aria una bellissima atmosfera di partecipazione ed entusiasmo. Per pochissimi soldi siamo andati a mangiare nel ristorante dell’hotel più di lusso della città, che ha la forma di una piramide,  e ci siamo letteralmente abbuffati. C’era il buffet (!!) e potevamo servirci quante volte volevamo. Mi sono comprata un libro bellissimo sul ruolo della donna nella rivoluzione sandinista. Si chiama “ Todas estamos despiertas “ (Siamo tutte sveglie), è di Margareth Randall, prova a cercarlo da Feltrinelli.

Da Managua abbiamo poi preso un comodissimo pullman con toilette e aria condizionata per S.Josè. Siamo arrivati di mattina presto. E’ una città molto bella, piuttosto all’europea, con bei negozi e ristoranti, la gente vestita bene. Si respira aria di benessere, non come lo intendiamo noi, ma è pur sempre benessere rispetto agli altri paesi dell’America Latina e tutti sono gentili. La gente è orgogliosa di vivere in un paese che è come un’oasi di pace nel centro dell’America Latina. C’è una grossa crisi economica e i prezzi, dicono, sono saliti molto, ma per noi sono sempre bassissimi. Si mangia al ristorante con 1500 lire e si può dormire in albergo con altrettanto.


Il giorno dopo il nostro arrivo siamo venuti all’Università (ora ti scrivo da lì) a cercare Paquito all’Istituto di Filologia. Quasi non mi riconosceva, figurati! Lui è sempre uguale, non è invecchiato per niente, è solo un pochino più magro. Ha detto che non ci poteva portare a casa sua perché il figlio sui è appena sposato e vive lì con la moglie.
Ci ha portato a casa di Dona Carmen, una sua amica e collega “profesora” di storia, che ci ha detto che potevamo stare da lei. Ci ha dato il suo studio, una bella stanza  piena di sole, con un terrazzino, un po’ isolata dal resto della casa, e ci troviamo benissimo.Lei vive lì con una figlia adottiva, una nipote, due cani e un pappagallo parlante (davvero!) e tre galline. In casa non c’è quasi mai e noi ci troviamo veramente a nostro agio. E’ molto gentile e premurosa, un po’ chiacchierona e religiosissima. E’ rimasta un po’ scandalizzata nel sapere che io e Alberto non siamo sposati, ma poi si è abituata all’idea, forse perché noi gliel’abbiamo detto con molta naturalezza e tranquillità. Abbiamo anche conosciuto dona China e 6 dei suoi 10 figli. Ne ha uno di 4 anni, ma è vedova da molto di più (!!). Abbiamo mangiato lì domenica. Paquito ci ha detto che se vogliamo possiamo andare lì tutti i giorni, ma noi non vogliamo disturbare. E’ una famiglia molto simpatica e lei è una donna dolce ed energica nello stesso tempo.

Paquito veniamo a trovarlo qui all’università e mangiamo alla mensa. Qui gli studenti sono molto diversi da quelli italiani: tutti perbenino, le ragazze vestite all’ultima moda (la loro!) con i tacchi a spillo. La politica qui è tabù e mi sembrano tutti abbastanza superficiali. Comunque l’ambiente è allegro, l’università bellissima e piena di verde, dopo pranzo ci sdraiamo sempre sul prato. Paquito mi ha detto che non andrà in Italia a causa dell’inflazione.  Mi ha domandato molto di te e gli piacerebbe tanto che tu venissi qui a trovarci. Gli ho detto che non è molto probabile, ma che non si può mai dire.

Continuo a scriverti da casa, dopo aver mangiato in un self-service vicino all’università. Oggi abbiamo venduto per 240 colones (circa 13000 lire) che qui sono tantissimi. Fra poco andiamo in centro alla posta(chissà se ci sarà la tua lettera) e a ritirare delle foto che abbiamo fatto in Guatemala. Se sono pronte te ne mando una che ho fatto nel giardino di un albergo, C’era uno scimmiotto che si era innamorato di me, mi era salito sulle spalle, mi abbracciava forte  forte e mi dava i bacini con lo scrocchio, Alberto è riuscito a fotografarci. Dai negativi ho visto che ci sono 5 0 6 foto bellissime! Mi hai mandato i costumi?E il materiale  della mostra di Alberto e i miei certificati? E le mie favole? Pensa che combinazione, c’è proprio un concorso di letteratura per bambini, scade il 15 ottobre e io vorrei partecipare con due o tre favole. Alberto farà le traduzioni e le illustrazioni. I vincitori firmeranno un contratto con una casa editrice che pubblicherà i racconti. Bé, io ci provo. Stasera siamo invitati a cena da un’altra nipote di dona Carmen. E’ il compleanno di Alberto, 26 anni!

Tu come stai? Ora che stiamo qui potrò ricevere regolarmente le tue lettere, mi raccomando, scrivimele lunghe lunghe. Scrivimi sempre alla POSTA RESTANTE, perché qui non usano gli indirizzi (!!)ma i punti cardinali, poi ti spiego meglio. C’è un clima strano: fino all’una c’è il sole e si sta bene, poi comincia a piovere. Durerà così fino a dicembre. Poi comincerà la stagione secca. In Italia è quasi autunno. Abbiamo riso io e Paquito parlando della tua caldaia vecchia che fa i botti!

Ora ti lascio. Ti ho scritto una lettera fiume. Spero nel frattempo di ricevere tue notizie.Un bacione grosso grosso. Elvirù






lunedì 3 luglio 2017

WALTER, SCRITTORE PER STRADA






Quello che a prima vista colpisce di Walter Lazzarin, scrittore per strada,  quando si ha modo di conoscerlo, è la dolcezza, che sfuma via via in altri aspetti delicati, quali la riservatezza, la timidezza, la gentilezza.  Non dobbiamo però pensare che Walter sia solo così, un ragazzo mite e gentile, ma piuttosto renderci conto che la sua scelta di lasciare l’insegnamento e iniziare a scrivere per strada, è stata sostenuta da un grande coraggio, un grande senso di libertà e una grande curiosità per il viaggio, la scoperta, l’avventura. E soprattutto per le persone. Lui “spaccia”, come ama dire, i suoi libri piccolini e allegri, e tautogrammi che fanno sorridere e allargano il cuore per quanto sono arguti e divertenti. E nel farlo chiacchiera con la gente, accoccolato davanti alla sua Olivetti lettera 32  sulla quale giorno dopo giorno, piazza dopo piazza di paesi e città, batte i suoi testi, a volte improvvisandoli per qualcuno che glieli chiede, altre volte studiando e perfezionando la trama del suo prossimo romanzo. Walter è non solo uno scrittore per strada, ma anche un viaggiatore, un esploratore, un cantastorie, un poeta. E di questo suo andare in giro per l’Italia ha fatto una professione, che molto lo diverte e lo rende ancora più riservato e gentile, perché non si è affatto montato la testa, nonostante le moltissime copie vendute dei suoi libri e un appuntamento fisso in un’importante trasmissione  sportiva alla televisione. Walter continua a viaggiare e a conoscere persone, di tutte le età, e a tutti dispensa tautogrammi e sorrisi, dediche buffe e filastrocche, e spunti filosofici che lo fanno sembrare un ragazzo venuto chissà da dove, in quest’epoca di fretta e dimenticanza, in cui ci si affanna e si corre e  si legge molto poco, perché diciamo di non avere tempo. Walter, alla gente che si affretta per strada, per andare chissà dove, fa venire voglia di fermarsi. E se tu guardi le persone, mentre lui recita a memoria uno dei suoi tautogrammi, ti accorgi che la loro espressione poco a poco cambia, diventa più rilassata e serena, e alla fine tutti se ne vanno con un bel sorriso stampato sulla faccia. Conoscere Walter fa bene alla salute, è una pausa di ristoro, uno spazio di quiete divertita, un’iniezione di arguzia e intelligenza, un'occasione di amicizia. Per me conoscere Walter è stato così.


Sabato 19 Agosto, alle 21,00, Walter sarà ancora una volta con noi, dopo il Festival delle Emozioni, nella splendida cornice del Parco della Rimembranza, in un incontro a cura del WWF Litorale Pontino. L' "Incontro semiserio..." sarà presentato da Fabio Cervelloni.

 

lunedì 26 giugno 2017

L'ARTE DI CHIEDERE


Mi ispiro all’interessante articolo di Annamaria Testa, uscito su INTERNAZIONALE, (https://www.internazionale.it/opinione/annamaria-testa/2017/06/27/ottenere-saper-chiedere) sull’arte di chiedere. E’ vero, chiedere può esporci al rischio di sentirci rifiutati e alla frustrazione di non essere  presi in considerazione. Ma è anche vero che chiedere  ci apre e ci permette di entrare in relazione con le altre persone.
A pensarci bene io sono una persona che chiede molto e che spesso ha ottenuto quello che chiedeva. L’ingrediente principale, nell’atto di chiedere, è a mio avviso la fiducia. Subito dopo viene la curiosità. Io so che il mondo è pieno di belle persone e di risorse alle quali attingere. Non ho paura di perdermi per la strada, di rimanere senza soldi o senza un riparo e neanche senza una parola di conforto nei periodi  bui. So che nel momento in cui chiedo, in qualche modo misterioso l’Universo si mette al mio servizio, fornendomi le cose di cui ho bisogno. Qualcuno la chiama provvidenza, qualcuno abbondanza, qualcun altro legge di attrazione. A me piace la prima definizione, perché me l’ha insegnata mio padre.
Lui, che sosteneva di essere ateo, credeva nella Provvidenza, con la P maiuscola L’ho visto decine di volte, in momenti molto difficili, materializzare letteralmente denaro, case, aiuti di tutti i tipi, che lo hanno sempre tirato fuori dagli impicci e dalle emergenze. Non l’ho mai visto, a differenza di mia madre, che invece sprofondava nella più profonda inquietudine, preoccuparsi più di tanto, e ogni volta, con il sorriso sulle labbra, lo vedevo risolvere problemi apparentemente irrisolvibili. Come? Chiedendo, aiuto, sostegno, amicizia, collaborazione, consigli, ospitalità, lavoro...  Sempre con grande dignità, gentilezza e gratitudine. Ma tutto questo avveniva i due direzioni. L’ho visto a volte tornare a casa senza camicia o maglione, una volta, d’estate, senza scarpe. Lui era fatto così, se qualcuno aveva bisogno, lui dava, dava. So di persone che ha accompagnato a Roma all’Ospedale perché non avevano i soldi per un taxi, di altre a cui ha prestato l’automobile per giorni e ricordo che l’ultimo Natale che abbiamo passato insieme si è presentato a pranzo con un barbiere disoccupato appena arrivato dal Belgio, senza bagagli e senza una lira. Dopo mangiato, mio padre, con gentilezza e garbo gli ha riempito una piccola valigia di abiti e biancheria e poi , senza farsi vedere da noi, per non umiliarlo, gli ha dato una busta con del denaro. Ho preso da lui questa atteggiamento di  fiducia nel genere umano. E credo che sia stato il dono più grande che mi ha lasciato. Questo dono mi ha permesso di viaggiare in giro per l’America Latina, per un anno e mezzo, trovando amici, ospitalità, cure nel momento del bisogno. Mi sono sempre sentita al sicuro, protetta, al riparo, in questa grande famiglia che è la famiglia umana. Posso sembrare un’idealista, so che al mondo esistono brutture, ingiustizie, guerre ( nell’81 mi sono ritrovata in Guatemala dove c’era una guerriglia terribile), ma la mia fiducia non si è mai spezzata.
E quando mi sento sola o triste chiamo gli amici e le amiche che ho sparsi un po’ dappertutto e che, anche se non ci vediamo spesso, riescono a darmi il conforto di cui ho bisogno. Ma anche io ci sono per loro, in uno scambio proficuo, di attenzioni, ospitalità, chiacchierate, piccoli regali,improvvisate, confidenze, risate, affetto. Perché l’amicizia va coltivata e protetta, ben tenuta al riparo dal’ovvietà, dalla routine, dalla trascuratezza. Come tutte le relazioni. Nel portafoglio di mio padre, dopo la sua morte improvvisa a seguito di un incidente automobilistico, abbiamo trovato la ricevuta di un vaglia che molti anni prima gli aveva spedito il suo grande amico Luigi, in un momento difficile, con la scritta “Trovare un amico est trovare un tesoro”. Ecco, chiedere vuol dire anche provare gioie di questo tipo. E conservare per anni un pezzetto di carta sgualcita che ci ricordi cos’è l’amicizia e ci riempia il cuore di gratitudine.

martedì 20 giugno 2017

DOPO LA NOTTE (due poesie)






Dopo il vagare della notte

In voli siderali

Di cui resta un vago sapore

È inutile cercare di ricordare il sogno

Lui è ancora lì

Nella spossatezza

Che ci tiene

E ci vorrebbe acciambellati

Nel letto

Come gatti

Oppure far finta di dimenticare
Entrando a testa alta
Nella mischia delle ore

Quel tempo eterno

Senza orologi

Che abbiamo attraversato

Con il corpo pesante abbandonato

E la mente leggera che volava

Si è rappreso

Come sostanza nuova

Che ora ci appartiene

E siamo più ricchi ora

E più sapienti

Con un vapore dentro

Screziato d’oro

Che scolora









Il filo della notte

Tiene ancora cucite le mia ciglia

Solo squarci di luce

Come pozze

E il caldo della pelle

Dopo il sonno

Quasi a rabbrividire

Pian piano mi riportano

Nel giorno

Ma i passi sono lenti

Come di vecchia stanca

E la testa è ovattata di bianco

Uno stupore di domanda

Blanda

Dove sono?

Ripasso i gesti

Uno a uno

E abbraccio uno schedario

Di consuetudini

Come volume antico

E polveroso

Si tratta di ricomporre

Le parole strascicate

Che vengono alla mente

E accarezzarle lente

Grata dell’alfabeto

Che riappare luminoso



Ogni mattina imparo

Il gioco del mondo